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C’è grasso e grasso. Quello bruno ha un effetto protettivo contro le malattie croniche

C’è un tipo di grasso che è meglio averlo che non averlo. È il tessuto adiposo bruno che fa bene alla salute. Non solo combatte l’obesità ma riduce il rischio di malattie croniche come diabete, ipertensione e malattie cardiache. Purtroppo ancora non si è scoperto come aumentarne la produzione.

Abbasso il grasso, evviva il grasso. La contraddizione è solo apparente. Nel primo caso parliamo del tessuto adiposo bianco, nel secondo di quello bruno. E se l’uno è la causa di tanti mali, l’altro potrebbe essere addirittura la soluzione.

In estrema sintesi la differenza tra i due tipi di grasso presenti nel nostro organismo (quello bianco in quantità molto superiore) è la seguente: il grasso bianco risparmia energia immagazzinando calorie, il grasso bruno brucia energia generando calore (ed è il motivo per cui è presente in grandi quantità negli animali che vanno in letargo).

Il tessuto adiposo bruno ha attirato l’attenzione degli scienziati per le sue potenzialità anti-obesità. Ma c’è un problema con cui gli esperti si sono scontrati: il grasso bruno non è facilmente individuabile perché si trova in parti nascoste del corpo umano, soprattutto intorno al collo e alle spalle, e quindi non è semplice reclutare persone con livelli elevati di tessuto adiposo bruno per valutarne le condizioni di salute attraverso sperimentazioni rigorose. Ora un nuovo studio su Nature Medicine ha ovviato al problema reclutando i partecipanti tra i pazienti sottoposti a una PET (tomografia a emissione di positroni) per la diagnosi di un tumore. I radiologi che effettuano questo esame segnalano sempre la presenza di tessuto adiposo bruno per assicurarsi di distinguerlo da un tumore. In questo modo gli scienziati hanno potuto valutare gli effetti del grasso bruno sulla salute dei partecipanti senza dover sottoporre a radiazioni individui sani che non avrebbero avuto ragioni per effettuare quel tipo di esame.

In tutto sono state coinvolti 52mila persone. Il tessuto adiposo bruno è stato individuato solo nel 10 per cento dei partecipanti. Una percentuale così bassa è probabilmente dovuta al fatto che le persone sottoposte alla PET erano state invitate ad evitare di esporsi al freddo, di svolgere attività fisica e di assumere caffeina, tutte attività che aumentano la produzione di grasso bruno.

Gli individui che mostravano quantità superiori di grasso bruno avevano meno probabilità di soffrire di malattie metaboliche o cardiache, tra cui diabete 2 e malattie delle arterie coronariche.

Più precisamente: solo il 4,6 per cento delle persone con elevati livelli di grasso bruno aveva il diabete 2 in confronto al 9,5 per cento di quelle che ne possedevano quantità limitate o nulle. Il 18,9 per cento dei partecipanti allo studio con il tessuto adiposo bruno aveva livelli di colesterolo alti in confronto al 22,2 per cento dell’altro gruppo.

Inoltre l’ipertensione, lo scompenso cardiaco congestizio e le malattie delle arterie coronariche erano meno frequenti nelle persone con cellule adipose brune individuabili.

Non solo: il grasso bruno sembrerebbe mitigare gli effetti negativi dell’obesità. Le persone obese con tessuto adiposo bruno corrono meno rischi di sviluppare malattie cardiache e metaboliche.

Non è ancora del tutto chiaro perché il grasso scuro faccia bene alla salute al contrario del grasso bianco. Si sa però che le cellule del grasso bruno consumano glucosio per bruciare calorie riducendo così i livelli di zucchero nel sangue e allontanando il rischio di sviluppare il diabete.

C’è il forte sospetto però che le cellule adipose brune intervengano anche nei processi ormonali favorendo il funzionamento di alcuni organi chiave del metabolismo. Ma le future ricerche cercheranno più che altro di scoprire un modo per aumentare la produzione di questo tessuto tanto prezioso. «La domanda naturale che tutti si fanno è: cosa posso fare per ottenere più grasso bruno? Non abbiamo ancora una buona risposta, ma questo sarà un tema entusiasmante da esplorare nei prossimi anni», ha dichiarato Cohen.

Tratto da: Healthdesk, 12 gennaio 2021