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Ictus: tutti i fattori di rischio e quelli di protezione

Uno studio olandese sottolinea quali sono i parametri fondamentali da tenere sotto controllo e suggerisce delle nuove strategie di difesa.

Si potrebbe dire che è una questione di idraulica. L’ictus infatti dipende dall’occlusione (o, meno spesso, dalla rottura) di un’arteria nel cervello: al tessuto cerebrale irrorato dal vaso non arrivano sangue e ossigeno e le cellule entro breve tempo muoiono. Con conseguenze che vanno dal decesso allo sviluppo di disabilità più o meno gravi: nel nostro Paese circa un milione di persone convivono con gli esiti invalidanti di un ictus. Si calcola però che fino all’80 per cento dei casi si potrebbe evitare con modifiche dello stile di vita, essendo consapevoli del proprio grado di rischio e agendo per ridurlo: identificare chi ha la maggior probabilità di essere colpito da un ictus è quindi indispensabile.

La ricerca

Per riuscirci un gruppo di ricercatori dell’università di Rotterdam, in Olanda, ha passato al setaccio i dati di quasi 39mila persone seguite per 15 anni, con l’obiettivo di individuare nel sangue marcatori del pericolo o, al contrario, elementi protettivi, così da ottenere per ciascuno un profilo di rischio sempre più preciso. Stando ai risultati, pubblicati su Neurology, sono 10 i composti-spia più promettenti: il colesterolo «cattivo» Ldl e i trigliceridi, per esempio, si confermano fra gli elementi di maggior pericolo ma lo è anche il piruvato, una sostanza che deriva dal metabolismo del glucosio e che, se presente in quantità, aumenta la probabilità di ictus del 13 per cento.

Indicatori di basso rischio

l contrario l’aminoacido essenziale istidina, che si trova in cibi che contengono proteine come carne, uova, latticini e cereali, sembra protettivo perché concentrazioni elevate nel sangue riducono del 10 per cento il rischio di ictus. «L’istidina può essere trasformata in istamina, che a sua volta favorisce la dilatazione dei vasi sanguigni e la riduzione della pressione arteriosa e dell’infiammazione: non sorprende quindi che possa essere un indicatore di un minor rischio di ictus», dice Dina Vojinovic, la coordinatrice dell’indagine. «Un analogo marcatore di basso rischio è poi il colesterolo “buono” Hdl: più è abbondante, più si abbassa il pericolo». Lo studio riferisce perciò qualche novità da verificare con ulteriori indagini e molte conferme: il colesterolo e i trigliceridi alti rientrano infatti a pieno titolo fra i fattori di rischio per l’ictus.

Le tre cause principali

Come spiega Massimo Del Sette, vicepresidente della Società Italiana di Neurologia e membro del Consiglio Direttivo dell’Associazione Lotta all’Ictus Cerebrale (ALICe Italia), «Esistono tre cause principali di ictus ischemico, quello più frequente in cui un vaso cerebrale resta occluso. L’ostruzione al passaggio del sangue può verificarsi per una cardioembolia (il blocco deriva cioè da coaguli che si formano nel cuore e poi viaggiano verso il cervello, ndr), e in questo caso la colpa è quasi sempre di una delle forme più diffuse di alterazioni del ritmo cardiaco, la fibrillazione atriale; l’ostruzione altrimenti può essere dovuta alla trombosi di un vaso con aterosclerosi, come accade per esempio quando nelle carotidi che portano il sangue al cervello ci sono placche da cui possono staccarsi trombi; infine l’ictus può dipendere da malattie dei piccoli vasi cerebrali, per esempio perché si soffre di ipertensione o diabete che danneggiano le arterie e portano a spesso a mini-ictus di cui non ci si rende conto finché non coinvolgono aree ampie del cervello. A monte di gran parte di queste cause note di ictus ci sono fattori di rischio modificabili fra cui appunto il colesterolo alto, ma anche il fumo, la sedentarietà, la dieta scorretta».

Guai «a cascata»

È una specie di cascata di guai: con uno stile di vita poco sano aumenta il rischio di pressione alta, diabete, ipercolesterolemia e da qui all’ictus il passo può essere breve, soprattutto perché, come specifica Del Sette «I diversi fattori di rischio non si sommano, ma moltiplicano il pericolo in modo esponenziale. Se per esempio in una persona soltanto ipertesa può non essere indispensabile ricorrere ad analisi strumentali per valutare lo stato delle carotidi, in un fumatore con la pressione e la glicemia alta diventa raccomandabile. Nella valutazione del rischio complessivo, poi, devono rientrare anche i fattori di rischio non modificabili come età, genere e familiarità per la malattia: non si possono cambiare, ma contribuiscono a dare un quadro più preciso del grado di pericolo».

Modifica delle abitudini

Stimarlo non è secondario, perché modificando le abitudini si può fare molto: dimagrire per esempio aiuta parecchio, soprattutto se si riduce la «pancetta» perché il grasso addominale è il più pericoloso anche per l’ictus. «Tutti sappiamo quali sono le regole di una vita sana, metterle in pratica però è difficile», ammette il neurologo. «Per riuscirci bisogna individuare il proprio peggior nemico e concentrarsi su quello: per qualcuno sarà il colesterolo alto, per altri sarà la fibrillazione atriale. A volte cambiare abitudini non basta e diventano indispensabili i farmaci: accade soprattutto a chi ha già avuto un ictus e spesso occorre associare più di un principio attivo per affrontare i diversi fattori di rischio presenti. Di queste terapie multiple, spesso prescritte dal cardiologo o dal diabetologo, dovrebbe tenere le fila il medico di famiglia. Esiste poi anche la possibilità di intervenire chirurgicamente, in casi molto selezionati, per togliere placche aterosclerotiche pericolose nelle carotidi: la scelta non è semplice e va valutata con attenzione, caso per caso» conclude Del Sette

L’importanza del soccorso tempestivo

I numeri dell’ictus nel mondo sono impressionanti: una persona su quattro prima o poi ne sarà colpita, per un totale di quasi 14 milioni di casi e 6 milioni di morti ogni anno. Anche in Italia si tratta di una minaccia concreta per tanti: ogni anno si registrano 150mila nuove vittime, stando agli ultimi dati della Società italiana di neurologia, e purtroppo un terzo non sopravvive entro un anno dall’evento, un altro terzo deve fare i conti con disabilità significative. Le conseguenze negative possono essere limitate con la prevenzione, ma anche con la tempestività nel chiamare i soccorsi all’esordio dei sintomi: esistono terapie per l’ictus, ma «il tempo è cervello» e prima si arriva, più sono efficaci.

Sintomi subdoli

Però questa malattia tuttora non è davvero conosciuta, come osserva Massimo Del Sette: «Il grande difetto dell’ictus è che non dà dolore, come invece accade con l’infarto. Così molti non sanno riconoscerne i sintomi». Compaiono all’improvviso e devono mettere subito in allarme: sono segnali inequivocabili: il non riuscire a vedere bene metà o una parte degli oggetti o non muovere bene un braccio, una gamba o entrambi gli arti di un lato del corpo; accorgersi di avere la bocca storta; non sentire più o sentire in maniera diversa un arto; non essere in grado di coordinare i movimenti o di stare in equilibrio; non riuscire a parlare perché di punto in bianco non si è più capaci di articolare bene, scegliere o comprendere le parole; essere colpiti da un mal di testa violento e molto localizzato, diverso dal solito.

Linee guida

In tutti questi casi bisogna chiamare il 112/118 e andare al Pronto soccorso, ma tuttora molti tergiversano, in qualche caso perfino perché si crede che non ci sia nulla da fare. «Fino a dieci, vent’anni fa poteva essere parzialmente vero, oggi non è affatto così», specifica Del Sette. «Le ultime linee guida per la gestione dell’ictus dell’Italian Stroke Organization, pubblicate lo scorso ottobre, sottolineano infatti che il numero di pazienti candidabili alle procedure per “riaprire” la circolazione cerebrale interrotta è aumentato enormemente: le terapie per la fase acuta dell’ictus si sono evolute moltissimo negli ultimi cinque anni».

Due opzioni di intervento

Quando un coagulo o un trombo occludono un vaso sanguigno nel cervello le opzioni sono sostanzialmente due, «scioglierlo» con farmaci attraverso la cosiddetta trombolisi oppure rimuoverlo meccanicamente, entrando nell’arteria con un catetere grazie alla procedura chiamata trombectomia. Entrambi i metodi sono sempre più efficienti e stanno cambiando gli esiti dei pazienti colpiti da ictus: fermo restando che prima si interviene maggiori sono le possibilità di recupero, oggi l’efficacia delle terapie consente di agire anche in casi che in passato non sarebbero stati trattati.

Quattro ore e mezzo di tempo

«La finestra temporale di intervento è aumentata dalle tre ore dall’inizio dei sintomi di qualche anno fa alle circa quattro ore e mezza di oggi, inoltre ora sappiamo che l’intervallo entro cui si hanno i migliori risultati varia molto da individuo a individuo perché il danno matura in maniera diversa nei differenti cervelli», puntualizza il neurologo. «Oggi abbiamo tecniche diagnostiche avanzate e possiamo valutare nel singolo paziente se c’è ancora spazio per agire. Non significa però che si possa aspettare, se si riconosce uno dei sintomi dell’ictus: anche in chi ha una finestra di intervento più ampia vale la regola per cui prima si inizia la terapia, migliore sarà l’esito e minori le disabilità residue», conclude Del Sette.

Tratto da: Corriere della Sera Salute, Elena Meli, 15 giugno 2021