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Covid: perché le persone con diabete rischiano di più?

Uno studio su Pnas ricostruisce il meccanismo alla base della tempesta di citochine nei pazienti Covid con diabete. La colpa è delle basse concentrazioni di un enzima. L’interferone può aumentare i livelli dell’enzima e ridurre l’infiammazione. Ma va dato al paziente giusto al momento giusto.

Violenta, improvvisa e difficile da tenere sotto controllo. Come per ogni tempesta, anche per quella di citochine, c’è da sperare che passi presto.

Scoprire perché arriva e come si forma sarebbe fondamentale per prevenirla e limitarne i danni. A questo si sono dedicati i ricercatori del Michigan Medicine Departments of Surgery and Microbiology and Immunology che hanno individuato il meccanismo che può scatenare l’acuta risposta immunitaria nei pazienti con Covid, in particolare se affetti da diabete di tipo 2.  Il loro studio pubblicato su Pnas  aiuta a comprendere come mai la malattia metabolica tanto diffusa nei Paesi occidentali aumenti notevolmente il rischio di sviluppare Covid in forma grave.

La colpa sarebbe dell’enzima SETDB2, lo stesso coinvolto nei processi infiammatori del diabete 2 che impediscono la guarigione delle lesioni cutanee. Le responsabilità dell’enzima sono emerse in prima battuta in un esperimento su topi infettati con il virus Sars-Cov-2. Gli animali affetti da diabete mostravano bassi livelli di SETDB2 nelle cellule immunitarie chiamate macrofagi. Lo stesso fenomeno è poi stato osservato nei pazienti con diabete colpiti da Covid.

Sia negli animali che negli esseri umani ad un calo della concentrazione di SETDB2 corrispondeva un aumento dell’infiammazione. È logico quindi supporre che riuscendo ad alzare i livelli di SETDB2 si possa frenare il processo infiammatorio. Il farmaco in grado di raggiungere questo obiettivo esiste già ed è l’interferone. Ma nel caso dei pazienti con forme gravi di Covid la sua efficacia sembrerebbe dipendere dal momento in cui viene usato.

«L’interferone è stato studiato durante la pandemia come potenziale terapia, alternando i tentativi di di aumentare o diminuire i livelli di interferone.  La mia sensazione è che la sua efficacia come terapia dipende in maniera specifica sia dal paziente che dai tempi», ha dichiarato Katherine Gallagher, tra gli autori dello studio.

I ricercatori hanno somministrato ai topi affetti da Covid l’interferone beta osservando un significativo aumento dell’enzima SETDB2 e una riduzione dei livelli di citochine infiammatorie. Ma l’interferone beta non è l’unico giocatore in campo. Secondo la ricostruzione degli scienziati nel processo di regolazione di SETDB2 intervengono altri due modulatori, le proteine JaK1 e STAT3. L’interferone aumenta le due proteine che a loro volta in un processo a cascata fanno salire i livelli di SETDB2.

I ricercatori sperano che i risultati di questo studio forniscano informazioni utili agli studi clinici in corso sull’uso dell’interferone o di altri componenti nella gestione delle forme gravi di Covid-19.

Gli scienziati insistono però sulla necessità di tenere conto del “chi” e del “quando” nella somministrazione della terapia, perché l’efficacia del trattamento dipende sia dal momento scelto per iniziare la cura sia dal tipo di paziente che la riceve. L’iterferone va dato al paziente giusto e al momento giusto.

«La nostra ricerca suggerisce che forse se siamo in grado di indirizzare i pazienti con diabete al trattamento con l'interferone, specialmente nelle fasi iniziali dell’infezione, ciò potrebbe effettivamente fare una grande differenza», concludono gli scienziati.

Tratto da: Healthdesk, 14 settembre 2021