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Covid, anche i reni sono organo bersaglio

Filtrano il sangue ed eliminano le scorie che intossicano l’organismo. Ma il meccanismo si può inceppare per colpa di diabete, infezioni, calcoli. E del Covid.

Un sistema complesso, delicato, incredibilmente efficiente. Sono i reni, il filtro che consente di eliminare dal sangue le sostanze di scarto. Così da far funzionare l'organismo al meglio. Una macchina precisa e preziosissima senza la quale il corpo non riesce a svolgere le funzioni più basilari. E, infatti, senza reni non si può stare. Piccoli e silenti, sono al centro di migliaia di segnali che vengono da tutti gli organi del corpo, tanto che non esiste patologia che non possa dare come conseguenza una malattia renale e che - proprio in ragione di questo interessamento - precipita nella sua gravità.

L'impatto del Covid

Come tutti i sistemi binari del nostro organismo, però, i due organi concorrono al buon funzionamento del sistema e se uno funziona poco, o nulla, l'altro viene in soccorso. Ecco perché si può vivere anche con un solo rene e perché è fondamentale che aumenti il numero dei donatori, anche viventi. "L'universo dei reni è affascinante quanto complesso, e annovera purtroppo molte patologie che li possono colpire, minando profondamente la qualità di vita dei pazienti e la loro sopravvivenza", spiega Piergiorgio Messa, presidente della Società Italiana di Nefrologia e ordinario di Nefrologia all'Università degli Studi di Milano.

Più problemi per i pazienti nefropatici

Soprattutto in epoca Covid: da un lato, i pazienti nefropatici si sono infettati per oltre il 20% in più rispetto alla popolazione generale, con una mortalità 10 volte superiore; dall'altro tra il 30 e il 40% di chi ha contratto l'infezione da Sars-CoV 2 ha poi sviluppato danni renali di vario grado e intensità. Sebbene, infatti, il Covid-19 colpisca prevalentemente l'apparato polmonare, il rene rappresenta uno tra i principali organi target. "Non possiamo ignorare l'impatto clinico che il virus ha avuto sulla salute renale, con un'insorgenza di oltre il 50% di danno renale acuto nei pazienti ospedalizzati e rischi post-acuti più elevati tanto più era grave l'infezione. Ma anche nei casi in cui la malattia non era così grave da richiedere l'ospedalizzazione si sono visti danni renali", sottolinea il presidente.

Le altre malattie, e l'effetto negativo dei farmaci

Ma oltre al Covid, quali sono le altre malattie che possono portare all'insufficienza renale? Le malattie che colpiscono i reni si possono dividere in tre grandi gruppi: quelle secondarie ad altre malattie, quelle acquisite primitivamente renali e quelle geneticamente trasmesse. Le prime, che possono verificarsi, per esempio, in chi soffre di diabete o ipertensione sono di gran lunga le più diffuse e rappresentano il 50-60% delle patologie renali. Non si tratta solamente del fatto che i reni vengono "usurati" dalle cattive condizioni generali ma anche dell'azione che su essi possono esercitare i farmaci che i pazienti prendono proprio per tenere sotto controllo le loro malattie.

Il rene policistico

Le seconde sono le meno conosciute, anche se spesso sono le più gravi nella manifestazione clinica; coinvolgono spesso meccanismi immunologici. Tra le malattie renali appartenenti, invece, all'ultimo gruppo, cioè quelle trasmesse geneticamente, la più nota è il rene policistico, che si manifesta nella maggior parte dei casi in età adulta. "In tutti i casi la malattia se non ben curata e compensata può diventare cronica e danneggiare progressivamente la capacità dei reni di mantenere in equilibrio la presenza di sostanze tossiche per l'organismo", va avanti Messa.

I farmaci

Una condizione che deve essere trattata con farmaci specifici per evitare di arrivare alla completa compromissione dei reni e quindi alla necessità di ricorrere alla dialisi, la terapia che consente di ripulire il sangue, o al trapianto di reni, terapia sostitutiva molto più efficace, ma purtroppo disponibile solo per una minoranza di pazienti, a causa della mancanza di organi. La malattia renale cronica, quindi, è una condizione a cui si arriva percorrendo strade anche molto diverse fra loro. Secondo la Società italiana di nefrologia colpisce tra il 7 e il 10% della popolazione ed è, purtroppo, in continua progressione anche a causa dell'invecchiamento generale della popolazione. In Italia, i pazienti che si trovano negli stati medi o avanzati della malattia sono quasi 4,5 milioni e i pazienti in dialisi circa 50 mila. Altrettanti sono i pazienti portatori di trapianto di rene.

Piccoli pazienti

Alla malattia renale cronica possono arrivare anche i bambini, a causa di malattie infiammatorie o ereditarie dei reni o di malattie congenite che provocano un alterato sviluppo dei reni, già durante la vita fetale. "Le alterazioni delle vie urinarie possono essere viste durante la gravidanza grazie all'ecografia; succede nell'1% delle donne gravide. Per fortuna, nella maggioranza dei casi, eseguendo una ecografia nel neonato si scopre che il problema è rientrato", spiega Giovanni Montini, direttore dell'Unità operativa complessa di Nefrologia, Dialisi e Trapianto Pediatrico Fondazione Irccs Cà Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano.  Una volta nati, invece, la spia che può far nascere il sospetto di un problema renale è la febbre ricorrente che non può essere attribuita ad altra causa evidente, come un'infezione della gola, delle orecchie o dei polmoni. In prima linea c'è il pediatra che in questi casi dovrebbe subito prescrivere un'analisi delle urine, un test semplice ma determinante nella diagnosi. "Il problema è soprattutto nei primi tre anni di vita, quando i bambini non riescono a esprimersi compiutamente e a indicare dolore, bruciore o fastidi nel fare la pipì", spiega ancora Montini. "Le infezioni delle vie urinarie interessano il 6-8% delle bambine e 2-3% dei bambini nei primi sei anni di vita".

Una malformazione

Talora la causa è una malformazione nell'apparato urinario che porta un affaticamento dei reni, ma in una piccola parte il difetto è proprio nei "filtri" dell'organismo. "Molte di queste malformazioni vanno seguite nel tempo e vengono trattate con una terapia antibiotica al bisogno. Tendono infatti a mettersi a posto autonomamente e solo in una quota ridotta è necessario intervenire chirurgicamente. Un tempo si tendeva a operare, ma oggi abbiamo capito che è più opportuno attendere per vedere se c'è una risoluzione fisiologica", sottolinea il nefrologo infantile. Esistono poi le malattie genetiche, che sono per fortuna rare, per cui la ricerca sta mettendo a punto soluzioni sempre più specifiche. Per esempio, la Sindrome emolitico-uremica (Seu), causata dal malfunzionamento del sistema del complemento, una parte importante del sistema immunitario. Se questo sistema è difettoso i reni non possono funzionare: una condizione che prima era una condanna alla dialisi e quindi al trapianto, ma che oggi può contare su nuovi farmaci già disponibili e su molecole specifiche per una delle mutazioni che la innescano che sono in fase di studio.

I sintomi

In caso di malformazioni del sistema urinario abbiamo visto che il primo campanello d'allarme è la febbre, ma in tutti gli altri casi quali sono i segnali di una cattiva funzionalità renale? Il primo e più conosciuto è una variazione dell'aspetto delle urine, o per il colore scuro, per la presenza di sangue, o per la comparsa di schiuma, per la presenza di proteine, a causa dell'alterazione del filtro renale: queste due condizioni sono definite dai medici come ematuria macroscopica e proteinuria.

"In queste circostanze - afferma Messa - sono spesso presenti altri sintomi, come una pressione elevata, edemi che indicano una ritenzione idrica importante, soprattutto a livello delle gambe, del volto o dell'addome, a volte con riduzione della diuresi". Nei casi più severi si riscontrano anche elevati livelli di creatinina nel sangue, sostanza che in condizioni di normalità viene eliminata proprio grazie al lavoro dei reni. Un aumento della sua concentrazione nel sangue è quindi un indicatore del loro cattivo funzionamento. Ma insieme alla creatinina sono molte altre le sostanze che non vengono più espulse e che vanno a intossicare l'organismo: potassio, acido urico, fosforo, tanto per citarne alcune.

La perdita di funzionalità

La progressiva perdita di funzionalità va di pari passo con la perdita dei nefroni, l'unità funzionale dei reni. "Alla nascita ne abbiamo circa un milione in ogni rene ed è come un conto in banca, la nostra assicurazione per riuscire a fare fronte ai problemi che nel corso degli anni potranno affliggere i reni. Non tutti però nascono con lo stesso bottino: i nati pretermine, quelli sottopeso, i neonati la cui madre abbia fumato o assunto farmaci durante la gravidanza, presentano un numero di nefroni inferiore", spiega il presidente.

Un patrimonio importantissimo, di cui siamo inconsapevoli ma che dovremmo cercare di conservare gelosamente. Anche perché, quando si arriva a diagnosticare un malfunzionamento renale, molti danni sono già stati fatti: i due organi, infatti, tendono a compensarsi l'un con l'altro, coprendo l'eventuale défaillance di uno dei due, e a svolgere un lavoro silenzioso, che non viene segnalato da dolori specifici. Come fare allora? Non esiste uno stile di vita specifico, ma certo evitare di fumare, mangiare in maniera equilibrata e sana, fare dell'attività fisica non può che aiutare anche a mantenere in buona salute i reni.

Le terapie

Tante malattie diverse hanno bisogno di terapie differenti. L'essenziale è che si agisca per tempo. "È evidente che nel caso delle infezioni si procederà con gli antibiotici, mentre in alcune malattie primitive si può intervenire anche con farmaci immunosoppressori, tra cui gli anticorpi monoclonali. Per fortuna la ricerca farmacologica ci mette a disposizione diverse opzioni e finché la funzione renale è conservata abbiamo possibilità di guarire o quantomeno di arrestare la progressione della malattia", dice Messa.

"Nelle forme secondarie ad altre malattie è invece necessario andare a curare le cause della patologia che porta a sofferenza renale". In tutti i casi, quando la funzionalità comincia a venire meno, il primo passo è quello che prevede un'alimentazione con poco sale e proteine animali, a cui si aggiungono farmaci per correggere alcuni parametri che risentono del cattivo funzionamento dei reni, come la pressione, la concentrazione di fosforo, del potassio, l'equilibrio acido-base e così via.

I nuovi farmaci

Ma la grande novità arrivata in questi mesi è rappresentata da farmaci usati finora nel trattamento del diabete di tipo 2, come gli inibitori di Sglt-2 (cotrasportatore 2 di sodio-glucosio), che diminuiscono i livelli di glicemia aumentando la capacità di espellere il glucosio attraverso le urine. I risultati di numerosi studi hanno, infatti, dimostrato un chiaro beneficio di questi farmaci nella protezione renale e cardiovascolare non solo nei pazienti con diabete di tipo 2, ma anche in persone non diabetiche con patologia renale cronica o cardiopatia cronica. Nello specifico, questi farmaci, rallentando in modo significativo l'evoluzione della malattia renale cronica, riducono sia il rischio di morte per cause renali sia quello di arrivare alla dialisi.

"Le sperimentazioni, a cui i centri italiani hanno partecipato e continuano a partecipare in gran numero, hanno dapprima evidenziato come questi farmaci riuscissero a rallentare la malattia renale secondaria al diabete meglio della terapia standard. In seguito, sulla base di questa evidenza si è voluto vedere quale fosse l'azione in chi ha insufficienza renale senza diabete e poi anche in diversi tipi di nefropatie; l'effetto è eclatante", sottolinea Messa. "Ecco perché come Società scientifica abbiamo chiesto all'Agenzia italiana del farmaco di prendere in considerazione la possibilità di dare il consenso al loro uso non solo nella malattia renale cronica del diabete, come già stato stabilito, ma anche nelle nefropatie non diabetiche".

Il nodo della dialisi...

Quando anche i farmaci non riescono ad arrestare la progressione della malattia renale cronica, la soluzione migliore per la sostituzione della funzione è certamente il trapianto renale ma, data la scarsità di organi, purtroppo spesso si deve ricorrere alla dialisi, un sistema che consente di simulare il filtraggio normalmente garantito dai reni. I pazienti in dialisi sono particolarmente fragili, per le loro condizioni sistemiche e perché, nella stragrande maggioranza dei casi, per poter eseguire la dialisi devono andare negli ospedali, esponendosi così alla possibilità di infezioni, prima fra tutte, in questo periodo, quella da Sar-CoV 2. Una rilevazione condotta dalla Società italiana di nefrologia fra febbraio e aprile 2020 ha dimostrato che nelle persone dializzate in ospedale l'incidenza dell'infezione da Covid era 2,3 volte più elevata rispetto a coloro, la minoranza, in dialisi domiciliare. Pazienti che hanno corso un rischio altissimo visto che, sempre secondo i dati Sin, la mortalità a causa dell'infezione da Covid nei pazienti in dialisi è stata circa dieci volte superiore a quella stimata nella popolazione generale.

La dialisi domiciliare

La pandemia ha quindi reso evidente a tutti quanto la scarsa diffusione della dialisi domiciliare abbia penalizzato questi malati. Nella dialisi domiciliare, il sistema usato può essere extracorporeo come quello utilizzato negli ospedali - in questo caso si fa passare il sangue in una macchina esterna che lo depura per poi reintrodurlo nel paziente - oppure si può sfruttare la membrana peritoneale come filtro attraverso un sistema collegato a un sacchetto di liquido dialitico che viene caricato e scaricato periodicamente (dialisi intracorporea). Dal punto di vista dell'efficienza, i due sistemi sono sostanzialmente equivalenti.  "La dialisi domiciliare - afferma il presidente - non solo consente ai pazienti di essere meno esposti ai rischi infettivi pandemici, ma rappresenta il trattamento dialitico associato a un recupero sociale migliore, e quindi a una superiore qualità di vita del paziente. Purtroppo, in Italia - continua l'esperto - non è diffusa quanto dovrebbe perché sul territorio non si riesce a organizzare il servizio e c'è una miopia di fondo sull'investimento. Infatti, la dialisi domiciliare, in particolare quella peritoneale, è anche meno costosa del trattamento dialitico ospedaliero".

Le stime dicono che solo il 10% circa dei dializzati è in cura con il sistema intracorporeo (peritoneale) con una marcata differenza fra le regioni: si va dal minimo nel Lazio con 5,7% a un massimo in Lombardia in cui si raggiunge il 14,2%. Un vantaggio per la salute dei pazienti che però non viene sufficientemente promosso dal sistema sanitario.

... e le donazioni di organo

"Non c'è alcun dubbio in termini di qualità di vita e sopravvivenza che il trattamento più efficace sia il trapianto, seguito dalla dialisi intracorporea e infine da quella extracorporea. Ma la diffusione di queste pratiche è esattamente in ordine inverso", spiega Messa. Cattiva organizzazione territoriale, assenza di previsioni a lungo termine, scarsa cultura della donazione degli organi; un mix che condanna i malati di malattia renale cronica a una vita pesante e piena di limitazioni.

"Nonostante una crescita significativa negli ultimi anni, in Italia il ricorso al trapianto di rene da vivente è ancora troppo modesto, circa il 15% del totale, mentre nei Paesi nordeuropei e negli Stati Uniti si colloca tra il 30 e il 50%", afferma, in una nota pubblicata sul sito del Ministero, Massimo Cardillo, il direttore del Centro nazionale trapianti. "Allo stesso tempo, nel nostro Paese ogni anno iniziano il trattamento dialitico circa 10 mila nuovi pazienti, dei quali almeno uno su tre è candidabile al trapianto di rene: occorrerebbe eseguire almeno 2.500-3.000 trapianti di rene l'anno, mentre quelli che attualmente realizziamo grazie ai donatori deceduti sono poco più di 2.000. Questo non consente né il soddisfacimento della domanda emergente né, tanto meno, lo smaltimento della lista di attesa".

Così l'Italia è alla ricerca di organi

Un documento del Centro nazionale trapianti propone strumenti e azioni per uniformare e incentivare la donazione. Una carenza cronica, quella degli organi disponibili per il trapianto. In Italia le liste di attesa sono spesso molto lunghe, anche se il 2021 ha fatto segnare una ripresa sia sul fronte delle donazioni (+12,1%) sia su quello dei trapianti (+ 9,9%).

L'ultimo Report del Centro nazionale trapianti (Cnt) fa ben sperare anche se il paragone è con l'anno della pandemia, il 2020, quando l'impatto del Covid aveva fatto scendere del 10% l'attività legata ai trapianti. L'ottimismo viene anche guardando alla riduzione significativa delle opposizioni alla donazione in rianimazione e al maggior numero assoluto di consensi mai raccolto in un anno: ben 2,2 milioni.

I dati

Anche i dati sul rene sono in risalita: nel 2021 ne sono stati donati 2051, di cui 326 da donatore vivente, +14,7% rispetto all'anno precedente. La regione con il più alto numero di trapianti da donatore vivente è stata il Veneto, con 74 operazioni, seguita da Emilia-Romagna e Piemonte, mentre Umbria, Calabria e Sardegna non ne hanno fatto registrare neanche uno. Il trapianto da vivente, ancor più se eseguito prima di iniziare il trattamento dialitico, è la migliore opzione terapeutica dell'insufficienza renale terminale. Vi sono molte evidenze scientifiche che dimostrano che non solo assicura la migliore sopravvivenza del paziente e dell'organo, ma garantisce anche migliori indici di funzionalità dell'organo trapiantato e migliore qualità di vita.

Come intervenire

Per cercare di uniformare e incentivare questa pratica su tutto il territorio nazionale, ad agosto 2021 la Conferenza Stato-Regioni ha approvato il documento del Cnt in cui si suggeriscono strumenti e azioni per superare le barriere e le difficoltà attuali. La nuova strategia prevede la creazione di ambulatori di pre-dialisi in tutte i dipartimenti di nefrologia con medici, infermieri e psicologi specificamente formati sul percorso di informazione, selezione e valutazione delle coppie candidate al trapianto da vivente. Le regioni dovranno studiare meccanismi di incentivazione per i centri nefrologici, valorizzando quelli che iscriveranno quote significative di coppie di pazienti alle liste di attesa, mentre l'esperienza specifica nella valutazione dei candidati al trapianto da vivente e nel follow-up dei trapiantati sarà richiesta come requisito ai futuri primari delle nefrologie degli ospedali, sedi di centri di trapianto di rene. Infine, corsie preferenziali per le indagini diagnostiche necessarie alla valutazione di idoneità alla donazione e al trapianto, oggi troppo lente.

Un sistema complesso, delicato, incredibilmente efficiente. Sono i reni, il filtro che consente di eliminare dal sangue le sostanze di scarto. Così da far funzionare l'organismo al meglio. Una macchina precisa e preziosissima senza la quale il corpo non riesce a svolgere le funzioni più basilari. E, infatti, senza reni non si può stare. Piccoli e silenti, sono al centro di migliaia di segnali che vengono da tutti gli organi del corpo, tanto che non esiste patologia che non possa dare come conseguenza una malattia renale e che - proprio in ragione di questo interessamento - precipita nella sua gravità.

L'impatto del Covid

Come tutti i sistemi binari del nostro organismo, però, i due organi concorrono al buon funzionamento del sistema e se uno funziona poco, o nulla, l'altro viene in soccorso. Ecco perché si può vivere anche con un solo rene e perché è fondamentale che aumenti il numero dei donatori, anche viventi. "L'universo dei reni è affascinante quanto complesso, e annovera purtroppo molte patologie che li possono colpire, minando profondamente la qualità di vita dei pazienti e la loro sopravvivenza", spiega Piergiorgio Messa, presidente della Società Italiana di Nefrologia e ordinario di Nefrologia all'Università degli Studi di Milano.

Più problemi per i pazienti nefropatici

Soprattutto in epoca Covid: da un lato, i pazienti nefropatici si sono infettati per oltre il 20% in più rispetto alla popolazione generale, con una mortalità 10 volte superiore; dall'altro tra il 30 e il 40% di chi ha contratto l'infezione da Sars-CoV 2 ha poi sviluppato danni renali di vario grado e intensità. Sebbene, infatti, il Covid-19 colpisca prevalentemente l'apparato polmonare, il rene rappresenta uno tra i principali organi target. "Non possiamo ignorare l'impatto clinico che il virus ha avuto sulla salute renale, con un'insorgenza di oltre il 50% di danno renale acuto nei pazienti ospedalizzati e rischi post-acuti più elevati tanto più era grave l'infezione. Ma anche nei casi in cui la malattia non era così grave da richiedere l'ospedalizzazione si sono visti danni renali", sottolinea il presidente.

Le altre malattie, e l'effetto negativo dei farmaci

Ma oltre al Covid, quali sono le altre malattie che possono portare all'insufficienza renale? Le malattie che colpiscono i reni si possono dividere in tre grandi gruppi: quelle secondarie ad altre malattie, quelle acquisite primitivamente renali e quelle geneticamente trasmesse. Le prime, che possono verificarsi, per esempio, in chi soffre di diabete o ipertensione sono di gran lunga le più diffuse e rappresentano il 50-60% delle patologie renali. Non si tratta solamente del fatto che i reni vengono "usurati" dalle cattive condizioni generali ma anche dell'azione che su essi possono esercitare i farmaci che i pazienti prendono proprio per tenere sotto controllo le loro malattie.

Il rene policistico

Le seconde sono le meno conosciute, anche se spesso sono le più gravi nella manifestazione clinica; coinvolgono spesso meccanismi immunologici. Tra le malattie renali appartenenti, invece, all'ultimo gruppo, cioè quelle trasmesse geneticamente, la più nota è il rene policistico, che si manifesta nella maggior parte dei casi in età adulta. "In tutti i casi la malattia se non ben curata e compensata può diventare cronica e danneggiare progressivamente la capacità dei reni di mantenere in equilibrio la presenza di sostanze tossiche per l'organismo", va avanti Messa.

I farmaci

Una condizione che deve essere trattata con farmaci specifici per evitare di arrivare alla completa compromissione dei reni e quindi alla necessità di ricorrere alla dialisi, la terapia che consente di ripulire il sangue, o al trapianto di reni, terapia sostitutiva molto più efficace, ma purtroppo disponibile solo per una minoranza di pazienti, a causa della mancanza di organi. La malattia renale cronica, quindi, è una condizione a cui si arriva percorrendo strade anche molto diverse fra loro. Secondo la Società italiana di nefrologia colpisce tra il 7 e il 10% della popolazione ed è, purtroppo, in continua progressione anche a causa dell'invecchiamento generale della popolazione. In Italia, i pazienti che si trovano negli stati medi o avanzati della malattia sono quasi 4,5 milioni e i pazienti in dialisi circa 50 mila. Altrettanti sono i pazienti portatori di trapianto di rene.

Piccoli pazienti

Alla malattia renale cronica possono arrivare anche i bambini, a causa di malattie infiammatorie o ereditarie dei reni o di malattie congenite che provocano un alterato sviluppo dei reni, già durante la vita fetale. "Le alterazioni delle vie urinarie possono essere viste durante la gravidanza grazie all'ecografia; succede nell'1% delle donne gravide. Per fortuna, nella maggioranza dei casi, eseguendo una ecografia nel neonato si scopre che il problema è rientrato", spiega Giovanni Montini, direttore dell'Unità operativa complessa di Nefrologia, Dialisi e Trapianto Pediatrico Fondazione Irccs Cà Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano.  Una volta nati, invece, la spia che può far nascere il sospetto di un problema renale è la febbre ricorrente che non può essere attribuita ad altra causa evidente, come un'infezione della gola, delle orecchie o dei polmoni. In prima linea c'è il pediatra che in questi casi dovrebbe subito prescrivere un'analisi delle urine, un test semplice ma determinante nella diagnosi. "Il problema è soprattutto nei primi tre anni di vita, quando i bambini non riescono a esprimersi compiutamente e a indicare dolore, bruciore o fastidi nel fare la pipì", spiega ancora Montini. "Le infezioni delle vie urinarie interessano il 6-8% delle bambine e 2-3% dei bambini nei primi sei anni di vita".

Una malformazione

Talora la causa è una malformazione nell'apparato urinario che porta un affaticamento dei reni, ma in una piccola parte il difetto è proprio nei "filtri" dell'organismo. "Molte di queste malformazioni vanno seguite nel tempo e vengono trattate con una terapia antibiotica al bisogno. Tendono infatti a mettersi a posto autonomamente e solo in una quota ridotta è necessario intervenire chirurgicamente. Un tempo si tendeva a operare, ma oggi abbiamo capito che è più opportuno attendere per vedere se c'è una risoluzione fisiologica", sottolinea il nefrologo infantile. Esistono poi le malattie genetiche, che sono per fortuna rare, per cui la ricerca sta mettendo a punto soluzioni sempre più specifiche. Per esempio, la Sindrome emolitico-uremica (Seu), causata dal malfunzionamento del sistema del complemento, una parte importante del sistema immunitario. Se questo sistema è difettoso i reni non possono funzionare: una condizione che prima era una condanna alla dialisi e quindi al trapianto, ma che oggi può contare su nuovi farmaci già disponibili e su molecole specifiche per una delle mutazioni che la innescano che sono in fase di studio.

I sintomi

In caso di malformazioni del sistema urinario abbiamo visto che il primo campanello d'allarme è la febbre, ma in tutti gli altri casi quali sono i segnali di una cattiva funzionalità renale? Il primo e più conosciuto è una variazione dell'aspetto delle urine, o per il colore scuro, per la presenza di sangue, o per la comparsa di schiuma, per la presenza di proteine, a causa dell'alterazione del filtro renale: queste due condizioni sono definite dai medici come ematuria macroscopica e proteinuria.

"In queste circostanze - afferma Messa - sono spesso presenti altri sintomi, come una pressione elevata, edemi che indicano una ritenzione idrica importante, soprattutto a livello delle gambe, del volto o dell'addome, a volte con riduzione della diuresi". Nei casi più severi si riscontrano anche elevati livelli di creatinina nel sangue, sostanza che in condizioni di normalità viene eliminata proprio grazie al lavoro dei reni. Un aumento della sua concentrazione nel sangue è quindi un indicatore del loro cattivo funzionamento. Ma insieme alla creatinina sono molte altre le sostanze che non vengono più espulse e che vanno a intossicare l'organismo: potassio, acido urico, fosforo, tanto per citarne alcune.

La perdita di funzionalità

La progressiva perdita di funzionalità va di pari passo con la perdita dei nefroni, l'unità funzionale dei reni. "Alla nascita ne abbiamo circa un milione in ogni rene ed è come un conto in banca, la nostra assicurazione per riuscire a fare fronte ai problemi che nel corso degli anni potranno affliggere i reni. Non tutti però nascono con lo stesso bottino: i nati pretermine, quelli sottopeso, i neonati la cui madre abbia fumato o assunto farmaci durante la gravidanza, presentano un numero di nefroni inferiore", spiega il presidente.

Un patrimonio importantissimo, di cui siamo inconsapevoli ma che dovremmo cercare di conservare gelosamente. Anche perché, quando si arriva a diagnosticare un malfunzionamento renale, molti danni sono già stati fatti: i due organi, infatti, tendono a compensarsi l'un con l'altro, coprendo l'eventuale défaillance di uno dei due, e a svolgere un lavoro silenzioso, che non viene segnalato da dolori specifici. Come fare allora? Non esiste uno stile di vita specifico, ma certo evitare di fumare, mangiare in maniera equilibrata e sana, fare dell'attività fisica non può che aiutare anche a mantenere in buona salute i reni.

Le terapie

Tante malattie diverse hanno bisogno di terapie differenti. L'essenziale è che si agisca per tempo. "È evidente che nel caso delle infezioni si procederà con gli antibiotici, mentre in alcune malattie primitive si può intervenire anche con farmaci immunosoppressori, tra cui gli anticorpi monoclonali. Per fortuna la ricerca farmacologica ci mette a disposizione diverse opzioni e finché la funzione renale è conservata abbiamo possibilità di guarire o quantomeno di arrestare la progressione della malattia", dice Messa.

"Nelle forme secondarie ad altre malattie è invece necessario andare a curare le cause della patologia che porta a sofferenza renale". In tutti i casi, quando la funzionalità comincia a venire meno, il primo passo è quello che prevede un'alimentazione con poco sale e proteine animali, a cui si aggiungono farmaci per correggere alcuni parametri che risentono del cattivo funzionamento dei reni, come la pressione, la concentrazione di fosforo, del potassio, l'equilibrio acido-base e così via.

I nuovi farmaci

Ma la grande novità arrivata in questi mesi è rappresentata da farmaci usati finora nel trattamento del diabete di tipo 2, come gli inibitori di Sglt-2 (cotrasportatore 2 di sodio-glucosio), che diminuiscono i livelli di glicemia aumentando la capacità di espellere il glucosio attraverso le urine. I risultati di numerosi studi hanno, infatti, dimostrato un chiaro beneficio di questi farmaci nella protezione renale e cardiovascolare non solo nei pazienti con diabete di tipo 2, ma anche in persone non diabetiche con patologia renale cronica o cardiopatia cronica. Nello specifico, questi farmaci, rallentando in modo significativo l'evoluzione della malattia renale cronica, riducono sia il rischio di morte per cause renali sia quello di arrivare alla dialisi.

"Le sperimentazioni, a cui i centri italiani hanno partecipato e continuano a partecipare in gran numero, hanno dapprima evidenziato come questi farmaci riuscissero a rallentare la malattia renale secondaria al diabete meglio della terapia standard. In seguito, sulla base di questa evidenza si è voluto vedere quale fosse l'azione in chi ha insufficienza renale senza diabete e poi anche in diversi tipi di nefropatie; l'effetto è eclatante", sottolinea Messa. "Ecco perché come Società scientifica abbiamo chiesto all'Agenzia italiana del farmaco di prendere in considerazione la possibilità di dare il consenso al loro uso non solo nella malattia renale cronica del diabete, come già stato stabilito, ma anche nelle nefropatie non diabetiche".

Il nodo della dialisi...

Quando anche i farmaci non riescono ad arrestare la progressione della malattia renale cronica, la soluzione migliore per la sostituzione della funzione è certamente il trapianto renale ma, data la scarsità di organi, purtroppo spesso si deve ricorrere alla dialisi, un sistema che consente di simulare il filtraggio normalmente garantito dai reni. I pazienti in dialisi sono particolarmente fragili, per le loro condizioni sistemiche e perché, nella stragrande maggioranza dei casi, per poter eseguire la dialisi devono andare negli ospedali, esponendosi così alla possibilità di infezioni, prima fra tutte, in questo periodo, quella da Sar-CoV 2. Una rilevazione condotta dalla Società italiana di nefrologia fra febbraio e aprile 2020 ha dimostrato che nelle persone dializzate in ospedale l'incidenza dell'infezione da Covid era 2,3 volte più elevata rispetto a coloro, la minoranza, in dialisi domiciliare. Pazienti che hanno corso un rischio altissimo visto che, sempre secondo i dati Sin, la mortalità a causa dell'infezione da Covid nei pazienti in dialisi è stata circa dieci volte superiore a quella stimata nella popolazione generale.

La dialisi domiciliare

La pandemia ha quindi reso evidente a tutti quanto la scarsa diffusione della dialisi domiciliare abbia penalizzato questi malati. Nella dialisi domiciliare, il sistema usato può essere extracorporeo come quello utilizzato negli ospedali - in questo caso si fa passare il sangue in una macchina esterna che lo depura per poi reintrodurlo nel paziente - oppure si può sfruttare la membrana peritoneale come filtro attraverso un sistema collegato a un sacchetto di liquido dialitico che viene caricato e scaricato periodicamente (dialisi intracorporea). Dal punto di vista dell'efficienza, i due sistemi sono sostanzialmente equivalenti.  "La dialisi domiciliare - afferma il presidente - non solo consente ai pazienti di essere meno esposti ai rischi infettivi pandemici, ma rappresenta il trattamento dialitico associato a un recupero sociale migliore, e quindi a una superiore qualità di vita del paziente. Purtroppo, in Italia - continua l'esperto - non è diffusa quanto dovrebbe perché sul territorio non si riesce a organizzare il servizio e c'è una miopia di fondo sull'investimento. Infatti, la dialisi domiciliare, in particolare quella peritoneale, è anche meno costosa del trattamento dialitico ospedaliero".

Le stime dicono che solo il 10% circa dei dializzati è in cura con il sistema intracorporeo (peritoneale) con una marcata differenza fra le regioni: si va dal minimo nel Lazio con 5,7% a un massimo in Lombardia in cui si raggiunge il 14,2%. Un vantaggio per la salute dei pazienti che però non viene sufficientemente promosso dal sistema sanitario.

... e le donazioni di organo

"Non c'è alcun dubbio in termini di qualità di vita e sopravvivenza che il trattamento più efficace sia il trapianto, seguito dalla dialisi intracorporea e infine da quella extracorporea. Ma la diffusione di queste pratiche è esattamente in ordine inverso", spiega Messa. Cattiva organizzazione territoriale, assenza di previsioni a lungo termine, scarsa cultura della donazione degli organi; un mix che condanna i malati di malattia renale cronica a una vita pesante e piena di limitazioni.

"Nonostante una crescita significativa negli ultimi anni, in Italia il ricorso al trapianto di rene da vivente è ancora troppo modesto, circa il 15% del totale, mentre nei Paesi nordeuropei e negli Stati Uniti si colloca tra il 30 e il 50%", afferma, in una nota pubblicata sul sito del Ministero, Massimo Cardillo, il direttore del Centro nazionale trapianti. "Allo stesso tempo, nel nostro Paese ogni anno iniziano il trattamento dialitico circa 10 mila nuovi pazienti, dei quali almeno uno su tre è candidabile al trapianto di rene: occorrerebbe eseguire almeno 2.500-3.000 trapianti di rene l'anno, mentre quelli che attualmente realizziamo grazie ai donatori deceduti sono poco più di 2.000. Questo non consente né il soddisfacimento della domanda emergente né, tanto meno, lo smaltimento della lista di attesa".

Così l'Italia è alla ricerca di organi

Un documento del Centro nazionale trapianti propone strumenti e azioni per uniformare e incentivare la donazione. Una carenza cronica, quella degli organi disponibili per il trapianto. In Italia le liste di attesa sono spesso molto lunghe, anche se il 2021 ha fatto segnare una ripresa sia sul fronte delle donazioni (+12,1%) sia su quello dei trapianti (+ 9,9%).

L'ultimo Report del Centro nazionale trapianti (Cnt) fa ben sperare anche se il paragone è con l'anno della pandemia, il 2020, quando l'impatto del Covid aveva fatto scendere del 10% l'attività legata ai trapianti. L'ottimismo viene anche guardando alla riduzione significativa delle opposizioni alla donazione in rianimazione e al maggior numero assoluto di consensi mai raccolto in un anno: ben 2,2 milioni.

I dati

Anche i dati sul rene sono in risalita: nel 2021 ne sono stati donati 2051, di cui 326 da donatore vivente, +14,7% rispetto all'anno precedente. La regione con il più alto numero di trapianti da donatore vivente è stata il Veneto, con 74 operazioni, seguita da Emilia-Romagna e Piemonte, mentre Umbria, Calabria e Sardegna non ne hanno fatto registrare neanche uno. Il trapianto da vivente, ancor più se eseguito prima di iniziare il trattamento dialitico, è la migliore opzione terapeutica dell'insufficienza renale terminale. Vi sono molte evidenze scientifiche che dimostrano che non solo assicura la migliore sopravvivenza del paziente e dell'organo, ma garantisce anche migliori indici di funzionalità dell'organo trapiantato e migliore qualità di vita.

Come intervenire

Per cercare di uniformare e incentivare questa pratica su tutto il territorio nazionale, ad agosto 2021 la Conferenza Stato-Regioni ha approvato il documento del Cnt in cui si suggeriscono strumenti e azioni per superare le barriere e le difficoltà attuali. La nuova strategia prevede la creazione di ambulatori di pre-dialisi in tutte i dipartimenti di nefrologia con medici, infermieri e psicologi specificamente formati sul percorso di informazione, selezione e valutazione delle coppie candidate al trapianto da vivente. Le regioni dovranno studiare meccanismi di incentivazione per i centri nefrologici, valorizzando quelli che iscriveranno quote significative di coppie di pazienti alle liste di attesa, mentre l'esperienza specifica nella valutazione dei candidati al trapianto da vivente e nel follow-up dei trapiantati sarà richiesta come requisito ai futuri primari delle nefrologie degli ospedali, sedi di centri di trapianto di rene. Infine, corsie preferenziali per le indagini diagnostiche necessarie alla valutazione di idoneità alla donazione e al trapianto, oggi troppo lente.

Concludono il piano d'azione attività di formazione professionale specifica e campagne di informazione dedicate ai nefrologi e a tutto il personale impegnato nel trattamento dei pazienti con insufficienza renale pre-terminale e terminale. Parallelamente alla sanità corre però anche la ricerca scientifica.

La ricerca scientifica

È di alcuni mesi fa la notizia del primo trapianto di rene da maiale Ogm. Lo xenotrapianto, come è stato descritto sull'American Journal of Transplantation, è stato eseguito su un uomo in morte cerebrale. Non quindi una vera operazione salvavita quanto una prova generale di quello che potrebbe accadere nel giro di qualche anno. Una volta trapiantati, i reni sono entrati in funzione perfettamente. "Il nostro esperimento ha dimostrato che abbiamo i mezzi tecnici per poter eseguire questo tipo di trapianto", ha dichiarato Jayme Locke, chirurga dell'Università dell'Alabama a Birmingham che ha coordinato lo studio.

Il maiale ha subito dieci modifiche genetiche che lo hanno reso più simile all'essere umano abbassando il rischio di rigetto d'organo. Un'operazione perfettamente riuscita che non sarebbe stata possibile senza la generosità di Jim Parsons, la persona in morte cerebrale, come scrivono gli stessi autori. A settembre scorso dopo un incidente stradale, le sue condizioni sono apparse disperate; una volta informata della possibilità di partecipare allo studio, la famiglia ha dato il consenso. Così l'uomo, da sempre iscritto alle liste dei donatori di organi, ha comunque "donato" il suo corpo alla ricerca scientifica.

Tratto da: La Repubblica Salute, Letizia Gabaglio, 30 aprile 2022