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Il cuore che l’Europa non sa controllare

 

Focus Salute e stili di vita. La mappa Uomini e donne ungheresi sono più a rischio. Paesi virtuosi sono Francia, Italia e Norvegia Il progetto La Ue finanzia EuroHeart, in collaborazione con l’Oms. Tutti gli Stati dovrebbero uniformare le loro leggi. Ma non lo fanno.
L’impegno «Ogni bimbo nato nel nuovo millennio ha diritto di vivere almeno fino a 65 anni senza malattie cardiovascolari» I casi In Finlandia i tassi di mortalità sono calati del 76 per cento mentre in Grecia sono aumentati dell’11 per cento Il calo Dopo un anno di «no smoking» nei luoghi pubblici 15% in meno di ricoveri per infarto in Francia Le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte Accordo per la prevenzione. L’efficacia delle leggi antifumo
«Ogni bambino nato nel nuovo millennio ha il diritto di vivere almeno fino a 65 anni senza soffrire di malattie cardiovascolari evitabili». È quanto si afferma nella dichiarazione di San Valentino, condivisa a Bruxelles il 14 febbraio 2000 dai responsabili della salute dei cittadini europei. Dopo nove anni è possibile fare un primo bilancio e, tirando le somme (statistiche), si può dire che il cuore degli europei è migliorato di poco. Carente è soprattutto la prevenzione. E quella dichiarazione andrebbe allargata a tutte le malattie evitabili. Soprattutto se sinonimo di cattivi stili di vita, assenza di prevenzione, ignoranza culturale. Se un italiano su due è sovrappeso, nella patria della dieta mediterranea, come si può pensare che nel resto del mondo classificato come ricco questo dato sia migliore? Pressione del sangue e colesterolo oltre i limiti salubri, obesità e diabete ormai classificabili come pandemie. E obesità e diabete incidono sulla mortalità cardiovascolare. Nei 27 Paesi dell’Unione Europea le malattie cardiovascolari restano la principale causa di morte, anche se si muore meno. Per farne la radiografia, e avere numeri su cui pianificare, l’Europa finanzia da qualche anno il progetto EuroHeart (www.euroheart2009.eu), in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) e la Società europea di cardiologia (Esc). L’Alt (Associazione per la lotta alla trombosi e alle malattie cardiovascolari Onlus) guidata da Lidia Rota Vender e la Fipc (Fondazione italiana per il cuore) sono i referenti italiani. Si tratta di un «osservatorio» che annualmente raccoglie dati e li confronta per misurare miglioramenti o peggioramenti, per valutare l’efficacia delle campagne di prevenzione. Ovviamente ci sono Stati «più sani» e Stati «più malati». E da qui al 2020 i morti per infarto e ictus, nel mondo, sono destinati ad aumentare. A causa della cattiva prevenzione, sia nei Paesi ricchi sia in quelli in via di sviluppo. Senza contare le malattie emergenti, legate anche all’allungarsi della vita media: lo scompenso cardiaco o la fibrillazione atriale (Af). Il primo colpisce 5,3 milioni di americani e 6,5 milioni di europei, con 550 mila nuovi casi ogni anno (a 5 anni dalla diagnosi la sopravvivenza è del 50%). L’Af, invece, uccide novemila persone ogni anno per infarto o ictus. Riguarda 4,5 milioni di europei e 3 milioni di americani. Ma molti sfuggono alla diagnosi fino ai primi sintomi gravi. In Italia ne soffre una persona su 4. Attualmente, nel mondo ci sono 17 milioni di morti all’anno per cause cardiovascolari (Cvd) e 128 milioni di persone ammalate. I decessi per Cvd costituiscono il 43% di tutte le morti, e per lo più riguardano pazienti in piena attività lavorativa. In Italia le ischemie al cuore interessano il 5% della popolazione, con 2 milioni di malati e 350 mila nuovi casi all’anno. Poi c’è l’ictus: terza causa di morte al mondo, dopo Cvd e neoplasie, e principale causa di disabilità in Occidente (tasso di invalidità grave del 15% e lieve del 40% a un anno dall’evento ischemico). La trombosi delle arterie, tra cuore e cervello, è la principale causa di morte nel mondo. Purtroppo nei Paesi ricchi, la prevenzione non sembra funzionare come dovrebbe. In Europa i conti non tornano del tutto. «Considerando tutti i Paesi europei, non solo quelli che fanno parte dell’Unione, emergono divari in crescendo negli ultimi 20 anni, con differenze che arrivano a un moltiplicatore di 10 per quanto riguarda la morte per eventi coronarici in persone di età inferiore ai 65 anni», dice Nata Menabde, vicedirettore regionale dell’Oms per l’Europa. Per sindrome coronarica muoiono di più gli uomini ungheresi sotto i 65 anni (105 morti/anno per 100 mila abitanti). Seguono Estonia (104), Slovacchia (74), Grecia (50), Finlandia (48) e Regno Unito (44). Sempre all’Ungheria spetta il primato per la morte da malattia coronarica nelle donne sotto i 65 anni: 28 donne su 100.000. A seguire Estonia (20), Slovacchia (19), Regno Unito (11), Grecia (10) e Belgio (9). Risultano Paesi virtuosi la Francia (mortalità maschile in età inferiore a 65 anni di 17 su 100 mila), Paesi Bassi (22), Italia (25) e Norvegia (27). Per le donne con meno di 65 anni la corona va ad Islanda e Francia (mortalità di 3 su 100 mila), seguite da Slovenia (5) e Italia (5). Dati sovrapponibili ai fattori di rischio: laddove il tabagismo è più diffuso, la mortalità è più ampia. Per esempio in Grecia (46% di fumatori), Estonia (42%), Slovacchia (41%), Germania (37%) e Ungheria (37%). Insomma è caos prevenzione: ogni Paese si muove in modo autonomo. Tutti dichiarano norme legislative per il controllo di fumo e alimentazione, ma i conti non tornano. Solo Danimarca e Grecia non hanno una legislazione apposita per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. In 12 Stati esistono linee guida per prevenire l’obesità. E, uniche, Francia, Germania e Irlanda addestrano la popolazione all’uso di defibrillatori automatici per l’arresto cardiaco. Ecco allora che, mentre in Finlandia (dal 1972 al 2005) i tassi di mortalità si sono più che dimezzati (-76%), in Grecia sono aumentati dell’11%. In generale, poi, la riduzione dei decessi riguarda più gli uomini che le donne, nelle quali si continua a registrare una mortalità per infarto elevata. Un esempio di prevenzione efficace? Le leggi contro il fumo. Nel febbraio 2008, a un anno dal divieto nei luoghi pubblici, le autorità francesi hanno annunciato una diminuzione del 15% dei ricoveri di emergenza per infarto. In Italia si è verificata una diminuzione dell’11,2% di infarti acuti dal gennaio 2005. In Irlanda, dal 2004 i ricoveri per infarto sono calati dell’11% annuo. In Scozia la riduzione è stata del 17% nell’ultimo anno, dopo il divieto emanato nel marzo 2006. «Certo, non possiamo attribuire la colpa della morte per infarto alla politica - dichiara Susanne Løgstrup, direttore di Ehn (European heart network) che coordina EuroHeart insieme all’Esc (guidata dall’italiano Roberto Ferrari) -, ma in alcuni Paesi è impressionante la correlazione fra mancanza di programmi coordinati e numero di morti, come in Grecia». C’è un altro aspetto, infine, da non sottovalutare: le differenze tra individuo e individuo, tra etnia e etnia. Da studiare per il bene di tutti. È la sfida di Attilio Maseri, cardiologo di fama internazionale e direttore scientifico dell’Anmco (l’associazione italiana dei cardiologi ospedalieri): «Va finanziata anche la ricerca per scoprire i segreti genetici di quei pochi che, pur non rispettando le norme di prevenzione, sopravvivono in buona salute. E bisogna avere anche un quadro preciso di come i singoli reagiscono alle cure». I nostri cardiologi puntano su piattaforme multimediali di dialogo tra colleghi. «Stiamo creando una rete ospedaliera di monitoraggio dell’attività assistenziale, scientifica e di ricerca», dice Guido Giordano, responsabile dell’area informatica dell’Anmco. Come? Spiega: «Con tutti gli esami, dalla Tac all’Rmn, dall’ecografia ai referti di laboratorio, condivisibili ovunque grazie a una piattaforma digitale completa (CardioPacs) che consente acquisizione, memorizzazione e comparazione di immagini, referti, dati clinici». L’auspicio è che tutta l’Europa entri nella rete virtuale.
Tratto da: Corriere della Sera, Pappagallo Mario, 29 dicembre 2009