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“Le future sfide al diabete”

 

Dal “giovanile” al tipo 2, si punta ai trapianti di seconda generazione ed alle staminali
«Il diabete mellito di tipo 2 si può prevenire o addirittura curare da soli, seguendo una corretta alimentazione. Invece, per i pazienti con il diabete mellito di tipo 1, la ricerca sta facendo enormi passi in avanti».
È questo il messaggio lanciato da Federico Bertuzzi, dirigente medico dell’Unità di Diabetologia all’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano e membro del Comitato scientifico della «Fondazione italiana diabete», in occasione della Giornata Mondiale del Diabete di oggi, il maggiore evento di informazione, sensibilizzazione e prevenzione di questa patologia, in drastico aumento in tutto il mondo. Bertuzzi è anche uno dei promotori di «Guarda cosa mangi», un manuale per la prevenzione e la cura del diabete. Si calcola che, oggi, sono oltre 3 milioni gli italiani con questa patologia, a cui va aggiunto un milione di persone che non sanno di averlo.
Dottore perché i diabetici sono così tanti? 
«La patologia è così diffusa a causa del numero sempre maggiore di persone che segue stili di vita scorretti. A questo si deve aggiungere anche l’indiscutibile aumento dell’età media della popolazione, che rappresenta un importante fattore di rischio per la forma di diabete più diffusa al mondo, cioè quello di tipo 2».
Che cos’è il diabete e quanti tipi esistono? 
«Il diabete è una malattia cronica che deriva dalla carenza nella produzione o dalla resistenza all’azione di insulina, un ormone prodotto dal pancreas che permette di regolare il livello di glucosio nel sangue. Quando il meccanismo è alterato, il glucosio si accumula nel circolo sanguigno e questo è responsabile di complicanze acute e croniche. Esistono diversi tipi di diabete, ma i più comuni sono il diabete di tipo 1 e il diabete di tipo 2».
Perché il diabete di tipo 1 è soprannominato «diabete giovanile»? 
«Perché colpisce prevalentemente i giovani e non per colpa dello stile di vita. Si tratta, infatti, di una malattia autoimmune, vale a dire caratterizzata da una reazione del sistema immunitario che distrugge le cellule beta del pancreas che producono l’insulina. Per questa ragione il diabete di tipo 1 viene spesso anche definito “insulino-dipendente”, dal momento che chi ne è affetto non può vivere senza la somministrazione costante di insulina». 
Qual è differenza con il diabete di tipo 2? 
«Le differenze sono tante. A cominciare dall’età dei pazienti: con il diabete di tipo 2 più si invecchia e più aumentano le probabilità di ammalarsi. Differenze sostanziali ci sono anche nelle cause: per questo tipo di diabete possono essere fatte risalire a fattori genetici ereditari, alla cattiva alimentazione oppure all’obesità. Quello che hanno in comune è che entrambi i tipi di diabete possono portare a complicanze acute (disidratazione, alterazioni ematiche, coma) e croniche, che riguardano sia organi sia tessuti, tra cui gli occhi, i reni, il cuore, i vasi sanguigni e anche i nervi».
Quali sono le terapie per queste due forme di diabete? 
«I pazienti affetti da diabete di tipo 1 necessitano di una costante somministrazione di insulina. Per i pazienti con diabete di tipo 2 la principale terapia è quella di correggere gli stili di vita scorretti. Questo basta almeno nelle prime fasi della malattia. Nelle forme più avanzate, invece, occorrono farmaci orali e infine anche il trattamento con insulina».
A che punto è la ricerca di nuovi trattamenti più efficaci contro il diabete? 
«Negli ultimi 15 anni sono stati fatti tanti progressi. Tuttavia, se consideriamo la diffusione della malattia con i relativi costi, sia in termini economici sia di qualità della vita, rimane tanto da fare. Fino ad oggi sono stati sviluppati numerosi farmaci per il diabete mellito di tipo 2. Per quello di tipo 1 anche la terapia insulinica è migliorata con le nuove insuline e con gli ultimi microinfusori per il rilascio continuo di insulina. Ricordo anche che sono iniziati addirittura i primi studi clinici su microinfusori “ad ansa chiusa”, a rilascio cioè di insulina in parte autoregolato dalle glicemie del paziente. Ma la ricerca ha ancora un compito molto importante per il diabete di tipo 1».
A che cosa si riferisce? 
«Al fatto di trovare una cura definitiva per liberare i nostri pazienti dalla malattia. Se da un lato abbiamo fatto molti passi in avanti, come nei trapianti di isole pancreatiche, molto c’è da fare per renderli più efficaci e sicuri nel lungo periodo. Con questa procedura oggi è possibile ottenere “insulino-indipendenza” nell’80-90% dei pazienti trapiantati e quindi liberarli dalle iniezioni. I limiti di questa procedura riguardano la necessità di una terapia immunosoppressiva e la limitata durata del trapianto nel tempo. Tuttavia sono in corso numerosi studi finalizzati a limitare gli effetti della terapia immunosoppressiva e a prolungare la durata della funzione delle isole trapiantate. Un altro filone di ricerca promettente, poi, è quello delle cellule staminali da cui ottenere nuove beta cellule».
A che punto siamo? 
«Per ora siamo fermi allo studio nei modelli animali. Non ci sono quindi veri e propri “trials” clinici. Per questo credo che sia fondamentale investire di più in ricerca».
Tratto da: La Stampa, Valentina Arcovio, 14 novembre 2012