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Diabete: Non serve essere troppo severi. Abbassare la glicemia sotto il limite fino ad ora indicato, così come controllarla molto spesso, si è rivelato svantaggioso

 

Anche nella cura del diabete vale il proverbio: il troppo stroppia. Nel tenere bassa la glicemia (il livello di zucchero nel sangue) non bisogna esagerare perché si rischia di mettere in pericolo la vita dei pazienti. Per questo gli esperti dei National Institutes di Bethesda hanno interrotto bruscamente uno studio nel quale mettevano a confronto il trattamento standard con uno più aggressivo, che cercava di mantenere l’emoglobina glicosilata (HbA1C) sotto il valore del 6 per cento, senza accontentarsi del 7 per cento che si persegue abitualmente. Alla ricerca hanno partecipato 10.000 diabetici di tipo 2 (quello più diffuso, che colpisce le persone di mezza età), già malati di cuore o ad alto rischio. «Nel gruppo che aveva fatto la cura più intensiva si è registrata, al contrario delle attese, una mortalità più alta - afferma Riccardo Vigneri, presidente della Società italiana di diabetologia -. Le persone anziane e fragili rischiano di più se la cura provoca bruschi cali del livello di zucchero nel sangue». Intanto, un altro lavoro ha preso in considerazione l’efficacia, sempre in pazienti con diabete di tipo 2, di un trattamento che tenga la pressione massima sotto i 115 mHg e il colesterolo sotto i 70 milligrammi/decilitro. Gli effetti positivi si sono visti sulla crescita delle placche aterosclerotiche e sull’ispessimento del cuore, mentre non si è modificato il rischio di ictus né di attacchi cardiaci. Solo seguendo i pazienti più a lungo si potrà sapere se i vantaggi superano i rischi legati al maggior uso dei farmaci. Per capire se il gioco vale la candela, oltre che degli aspetti clinici occorre tenere conto anche del fattore economico e, non ultimo, di quello psicologico: è di questi giorni la notizia che per tenersi controllata più volte al giorno la glicemia a casa con gli strumenti portatili, i diabetici di tipo 2 che non fanno uso di insulina gravano sul Sistema sanitario britannico per cento milioni di sterline e hanno un rischio aumentato del 6 per cento di andare incontro all’ansia e alla depressione. Quando invece si passa all’insulina, il monitoraggio è d’obbligo: una buona notizia è che, come si è recentemente dimostrato, una sola iniezione al giorno di insulina del tipo glargine ha gli stessi effetti di tre somministrazioni di quella chiamata lispro, somministrata in occasione dei pasti. Prima dell’insulina, comunque, ci sono altre strade da tentare. Grandi speranze erano riposte nei cosiddetti glitazoni, antidiabetici orali passati dal Sistema sanitario nazionale, finiti nell’occhio del ciclone per il sospetto che aumentino il rischio di malattie del cuore e dei vasi. In realtà uno dei due farmaci di questa classe, il pioglitazone, sembra rallentare l’evoluzione dell’aterosclerosi e ridurre il rischio di infarto e ictus, ma come il rosiglitazone può provocare scompenso cardiaco e aumentare il rischio di fratture ossee. Un approccio più innovativo sfrutta il sistema delle incretine, ormoni intestinali che favoriscono il rilascio di insulina da parte del pancreas. L’exenatide, disponibile anche in Italia e rimborsata dal Sistema sanitario nazionale, ha il vantaggio di far dimagrire, ma deve essere somministrato per iniezione come l’insulina. Per bocca si prendono il sitagliptin, in vendita in Italia da gennaio, a cui si affianca da qualche giorno il vildagliptin; entrambi sono in classe A. Vanno usati solo quando falliscono le altre alternative: non solo per il loro costo elevato, ma anche per prudenza.
L’esperienza degli ultimi anni con i farmaci appena messi sul mercato insegna a pensarci bene prima di lasciare la strada vecchia per la nuova.
*** 2.700.000 i malati di diabete che si contano oggi in Italia ***
Ricerca: I buoni i risultati del bisturi. Le speranze riposte nel maiale Ora si punta sulla chirurgia e sul trapianto di cellule pancreatiche Ricercatori dell’università del Texas sono riusciti a rivestire l’ormone con un gel capace di trasportarlo fino all’intestino Forse si apriranno nuove prospettive, se verranno confermati i risultati appena presentati al Congresso dell’International Diabetes Federation a Wellington, in Nuova Zelanda. Un gruppo di ricercatori moscoviti sono riusciti a garantire l’indipendenza dall’insulina a due pazienti iniettando loro nell’addome cellule del pancreas di maialini appena nati, rivestite di un gel che ne impedisce il riconoscimento e quindi il rigetto, da parte del sistema immunitario dell’ospite. Per ora per i diabetici di tipo 1, quello che più spesso compare nei bambini o nei giovani, la speranza di una cura definitiva è solo in un trapianto di pancreas o nell’infusione di cellule dell’organo provenienti da un donatore umano. «La procedura non è più sperimentale in senso stretto - spiega Antonio Secchi, direttore del Programma di Ricerca Strategica Trapianti dell’Istituto Scientifico Universitario San Raffaele di Milano - tanto che è prevista nel tariffario regionale. Tuttavia per la sua difficoltà non è certo un intervento di routine: siamo l’unico centro italiano ad effettuarla, e in tutta Europa siamo in tre». La complessità non sta tanto nel trapianto, che non è un’operazione chirurgica, ma un’infusione. «I momenti critici vengono prima e dopo: isolare dal cadavere una quantità sufficiente di cellule di buona qualità e riuscire a farle funzionare a lungo - spiega Secchi - . Nella nostra casistica, otto pazienti su dieci dopo l’intervento non devono più fare l’insulina». Purtroppo però, dopo solo un anno, la percentuale scende al trenta per cento. «Per migliorare questo dato abbiamo provato a somministrare uno dei farmaci contro il rigetto, la rapamicina, prima del trapianto - spiega l’esperto -. In questo modo la percentuale di successo a un anno è raddoppiata. Ma ancora non basta». In sostanza, per ora una soluzione che liberi i diabetici di tipo 1 dalla schiavitù dell’insulina non esiste. «Quel che più condiziona la loro qualità della vita è la dipendenza dalle iniezioni - commenta Gian Franco Bottazzo, noto diabetologo, oggi direttore scientifico dell’Ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma -. Ben venga la ricerca di altre modalità di somministrazione». Una delle strade più promettenti sembrava passare per le vie aeree. Purtroppo però l’insulina spray è stata ritirata dal mercato statunitense prima ancora di arrivare su quello italiano. Le ragioni del suo flop stanno nel prezzo elevato, ma anche nel dispositivo di erogazione ingombrante e difficile da usare. «Non si è mai certi della concentrazione effettivamente raggiunta nel sangue e non sono stati del tutto fugati i timori che il farmaco possa provocare danni e perfino tumori al polmone» aggiunge Bottazzo. È di questi giorni però una notizia che apre una possibilità alla strada dell’insulina per bocca. Un gruppo di ricercatori dell’Università del Texas è riuscito a rivestirla con un gel che, per ora solo in test di laboratorio, sembra in grado di trasportare l’ormone fino all’intestino, favorendone il passaggio nel circolo sanguigno. Grandi speranze alimenta nei diabetici di tipo 2, adulti per lo più obesi o sovrappeso, la soluzione chirurgica. Nella maggior parte dei diabetici che si sottopongono a intervento per dimagrire, la glicemia torna normale. «Per anni abbiamo pensato che dipendesse dalla perdita di peso - spiega Luigi Angrisani, presidente nazionale della Società italiana di chirurgia dell’obesità -. Pian piano ci siamo accorti che la remissione della malattia era immediata, ben prima che il paziente cominciasse a dimagrire». Gli studi sui topi di Francesco Rubino, attualmente direttore del Centro per la chirurgia del diabete del Weill Cornell Medical Center di New York, hanno infatti dimostrato che entrano in gioco meccanismi legati agli ormoni intestinali che regolano la produzione di insulina. «Finora questi interventi sono stati eseguiti su individui con obesità intermedia o grave con la tecnica più diffusa nel mondo, il by-pass gastrico, o con la diversione biliopancreatica messa a punto da Nicola Scopinaro di Genova - precisa Angrisani - . Il punto in discussione è se valga la pena operare anche i diabetici con obesità iniziale o appena sovrappeso, e con quale tipo di intervento». Adesso gli esperti vogliono verificare con uno studio italiano gli effetti dei due tipi di chirurgia sugli obesi meno gravi. «Viste le complicanze a lungo termine del diabete qualcuno suggerisce di andare addirittura oltre, operando anche chi obeso non è - aggiunge Angrisani - . La percentuale di successo del 65 per cento ottenuta in Brasile su persone non obese con un nuovo tipo di intervento più impegnativo non giustifica i rischi e gli effetti collaterali». Anzi, davanti all’entusiasmo suscitato da questa prospettiva occorre ricordare che anche i tipi di operazione più collaudati hanno una mortalità che va da un caso su mille a quasi due su cento operati. Inoltre, dopo l’intervento, possono comparire parecchie complicazioni a lungo termine: deficit nutrizionali, anemia, osteoporosi. Senza contare i gravi casi di ipoglicemia, abbassamento del livello dello zucchero nel sangue sotto una soglia critica, che si possono verificare anche a distanza di anni.
Fonte: Corriere della Sera, Villa Roberta, 04 maggio 2008