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Stress da diabete: da non scambiare per depressione. E lo psichiatra non serve

La maggior parte delle persone con diabete presenta dei sintomi da attribuire allo stress negativo causato da questa condizione cronica. E visto che non si tratta di una patologia psichiatrica, ma di una sorta di burn out , andrebbe gestito dal team diabetologico e non dallo psichiatra. E non va mai sottovalutato.
La relazione tra diabete e depressione è nota da tempo; un nuovo studio presentato al congresso dell’American Diabetes Association (ADA) dimostra che i sintomi depressivi nelle persone con diabete possono essere efficacemente ridotti da interventi mirati al trattamento dello ‘stress da diabete’ e che quello che comunemente viene etichettato come ‘depressione’, in realtà non sarebbe una patologia psichiatrica vera e propria ma una sorta di burn out da diabete, che è una patologia cronica, complessa, difficile da gestire e appunto stressante.
“La depressione in clinica – spiega Lawrence Fisher, Professore di Medicina di famiglia e di comunità presso la University of California di San Francisco si misura con delle scale basate su sintomi e non sulle cause; molto spesso la presenza di sintomi depressivi nelle persone con diabete riflette una condizione di stress e di burn out cronico, più che una patologia psichiatrica vera e propria.” Per tale motivo i ricercatori californiani hanno sviluppato uno strumento per misurare il ‘distress da diabete’ che individua se una persona ha presentato preoccupazione relativamente a questioni correlate al diabete, come ad esempio l’ipoglicemia. Ai pazienti è stato anche somministrato il Patient Health Questionnaire per la valutazione dei sintomi depressivi. i pazienti che presentavano elevati livelli di sintomi depressivi e di distress sono stati assegnati a tre diversi interventi, tutti mirati a ridurre il distress associato alla gestione le diabete, più che i sintomi di depressione. Un gruppo ha preso parte ad un programma di auto-gestione del diabete online, un altro, oltre a partecipare al programma online, ha ricevuto anche un assistenza individuale per la risoluzione dei problemi correlati al distress da diabete. Il terzo gruppo ha ricevuto un’assistenza personalizzata e materiale educativo sul diabete, per posta. Tutti i gruppi venivano inoltre contattati al telefono nel corso dello studio.
Tutti e tre gli interventi si sono dimostrati efficaci nel ridurre i sintomi depressivi e il distress da diabete nel corso dei 12 mesi di durata del progetto; in particolare, l’84% di quelli che presentavano una depressione di entità moderata all’ingresso, sono riusciti a ridurre sensibilmente i suoi livelli. “Questo dimostra – sottolinea Fisher – che quello che normalmente viene etichettato come psicopatologia, in realtà è stress da diabete e deve dunque essere affrontato e gestito dal team diabetologico.”
Un ulteriore studio, condotto sui pazienti con diabete di tipo 1, sottolinea l’importanza di trattare i sintomi depressivi perché maggiori sono, maggiore il rischio di mortalità dei pazienti. Lo studio, di grande importanza visto che le conseguenze della depressione nel diabete di tipo 1 sono un’area di ricerca poco esplorata, ha analizzato dati provenienti da una coorte di pazienti con diabete di tipo 1 nell’area di Pittsburgh (Pittsburgh Epidemiology of Diabetes Complications study, EDC), dimostrando che i soggetti con diabete con i più elevati livelli di depressione sono quelli più a rischio di mortalità prematura. I ricercatori hanno utilizzato la scala Beck Depression Inventory per individuare i sintomi di depressione (umore basso, perdita di interesse nelle cose, perdita di appetito, senso di inutilità e tendenze suicidarie); i partecipanti allo studio, avevano ricevuto una diagnosi di diabete di tipo 1 da bambini tra gli anni ’50 e ’80 e sono stati studiati per la prima volta nel 1986; attualmente sono dunque al venticinquesimo anno di follow up. “Per ogni punto di aumento nella scala Beck Depression Inventory – fa sapere la dottoressa Cassie Fickley, primo autore dello studio – abbiamo rilevato una aumento del 4% del rischio di mortalità. Questi dati sono in linea con precedenti risultati dell’EDC, che dimostravano un aumentato rischio di patologie cardiovascolari in questa coorte di pazienti”.
Tratto da: Quotidiano Sanità, Maria Rita Montebelli, 17 giugno 2014