5permille
5x1000
A te non costa nulla, per noi è importante!
C.F. 98152160176

«Diabete, siate protagonisti della cura, la malattia si può controllare»

L'incidenza è quasi raddoppiata in poco meno di trent'anni. I commenti del Prof Enzo Bonora, nuovo presidente della Società Italiana di Diabetologia – SID
Bologna - Continuano le novità sul versante della cura del diabete, se ne è parlato al 25° Congresso della Società Italiana di Diabetologia - SID - celebrato a Bologna, e più recentemente a San Francisco al Congresso dell'American Diabetes Association (Ada). Abbiamo fatto il punto della ricerca con due luminari, il Prof Enzo Bonora, al vertice della SID, e con il predecessore, Prof Stefano Del Prato.
«E' una sfida difficile: chi si ammala di diabete deve diventare protagonista della cura, agire in prima persona, senza aspettare che l'aiuto arrivi solo dalle medicine».
Professor Bonora, è questo il primo messaggio da trasmettere ai pazienti?
«Sì - risponde il presidente della Società Italiana di Diabetologia - e l'appello è esteso a tutti, perché ognuno di noi deve essere consapevole che la qualità della vita e la sopravvivenza dipendono soprattutto dai comportamenti quotidiani».
Quanti sono i diabetici in Italia?
«I dati parlano di 3 milioni e 700 mila persone, un numero ottenuto con i ricoveri, le esenzioni ticket e i dispositivi medici erogati, ma accanto a questi malati per così dire 'conosciuti', ce ne sono tanti altri che per loro fortuna non hanno mai avuto bisogno di una degenza in ospedale, non prendono farmaci e ai quali la malattia non è mai stata diagnosticata. E se sommiamo tutto arriviamo a non meno di 5 milioni. Quindi, una persona su 12 che vive nel nostro Paese ha il diabete. Potremmo dire che in ogni famiglia è presente un diabetico».
La malattia è in aumento?
«Sì, in continuo aumento - risponde il professor Bonora, che è ordinario di Endocrinologia all'Università di Verona -. Possiamo dire che in poco meno di trent'anni la diffusione è quasi raddoppiata e negli ultimi quindici anni è stata registrata, dall'Osservatorio Arno diabete, una crescita del 70%».
Quali sono i motivi?
«I pazienti aumentano per l'incremento dei fattori di rischio: l'eccesso di peso e il progressivo invecchiamento della popolazione. Ma possiamo anche aggiungere che è aumentata l'attenzione verso la malattia».
Quando una persona scopre di avere il diabete che cosa deve fare?
«Prepararsi a saper gestire la malattia. E' questo è il grande compito dei medici, dei dietisti, degli infermieri e degli psicologi che ruotano attorno al diabetico: trasmettere a ogni malato, dedicandogli ascolto e tempo, questa consapevolezza. Oggi la durata della malattia cronica e la sopravvivenza dei malati si è prolungata. Le complicanze sono numerosissime e dobbiamo superare la visione classica per cui viene interessato l'occhio, il rene, i nervi e i vasi sanguigni, perché nel diabete tutti i tessuti e tutte le cellule dell'organismo soffrono a causa dell'iperglicemia. Ogni diabetico è unico nel suo genere».
Quindi se la diagnosi è personalizzata, dovrà esserlo anche il modello d'assistenza?
«Certamente. Per questo la sfida è difficile. Il diabete è una malattia cronica grave che richiede qualcosa di specifico, a volte mal sopportato, di attenzione all'alimentazione, all'attività fisica - è indispensabile almeno una passeggiata di mezz'ora ogni giorno - alle misurazioni glicemiche domiciliari, alle assunzioni di pillole, e alle visite di numerosi specialisti. Sono attività svolte ogni giorno per 20-30 anni: il loro numero può superare quota 500mila. Ecco, questo vuol dire essere in grado di gestire la malattia, il cui esito dipende da quanto il paziente partecipa ai controlli e alle cure».
Professore, gli italiani conoscono il diabete?
«La gente è convinta di sapere che cosa sia e la patologia viene accostata a un'errata alimentazione, alla mancanza di attività fisica e alla familiarità. Dai risultati di un'indagine Eurisko, condotta per conto della Sid, il 90% la giudica una malattia grave ma controllabile e viene posizionata al quinto posto dopo tumori, ictus, infarto e Alzheimer. Purtroppo, manca la percezione del rischio diabete riferito a se stessi e ben il 90% degli italiani non si considera a rischio».
E, invece, non è così?
«In realtà oltre un terzo degli italiani è a rischio e ben il 70% di chi è ad alto rischio non si sente tale. Ma non è tutto: oltre la metà dichiara di non fare nulla per prevenire il diabete. E questo vuol dire negare il problema e considerare la prevenzione inefficace. Quindi, anche se molto è stato fatto, dobbiamo intensificare ancora di più i nostri messaggi, per aumentare la consapevolezza relativa al rischio di ammalarsi di diabete».
Proseguiamo l'approfondimento con il Prof Stefano Del Prato
«Nella nostra attività di ricerca, uno dei filoni principali è quello di individuare segni distintivi del rischio di sviluppare diabete al fine di ottimizzarne la prevenzione. Il diabete è malattia cronica caratterizzata da un aumento della glicemia, ossia dei livelli di zucchero nel sangue. Due sono le principali forme di diabete. Il diabete di tipo 1, chiamato giovanile, dovuto alla perdita della capacità del pancreas di produce insulina, e il diabete tipo 2 che si manifesta più frequentemente in età adulta ed è dovuto a una produzione alterata di insulina e a un suo ridotto funzionamento».
Professor Stefano Del Prato, quali sono le ultime frontiere in tema di prevenzione?
«Dobbiamo distinguere la prevenzione del diabete tipo 1 da quella del diabete tipo 2. Il diabete tipo 1 - _risponde Del Prato, che è ordinario di Diabetologia all'università di Pisa - è una malattia autoimmunitaria per la quale il nostro stesso sistema di difesa attacca e distrugge le cellule del pancreas che producono insulina. L'attivazione del processo autoimmunitario può essere identificato in una fase precoce, quando ancor le glicemie sono normali. In questa fase però potrebbe essere possibile agire con una specie di vaccinazione che protegga le cellule che producono insulina dalla distruzione autoimmunitaria. Diversa è la situazione per i diabete tipo 2. Nei soggetti a rischio si possono riscontrare sia particolari geni, sia una iniziale pigrizia delle cellule beta, che producono insulina, a rispondere agli stimoli. Questa alterazione è già associata a un modificata capacità dell'insulina a favorire l'ingresso dello zucchero nei tessuti dell'organismo. Anche in questo caso azioni preventive, che per lo più si identificano con un corretto stile di vita, possono ridurre in modo molto efficace la comparsa di diabete. Questi due aspetti della prevenzione sono oggetto si studi italiani di rilievo internazionale finanziati dalla Società Italiana di Diabetologia» .
Quindi, il futuro è nella ricerca?
«Non c'è dubbio, ricerca e innovazione vanno di pari passo nell'offrire soluzioni alle persone con diabete , ma ancora più importante in quelle a rischio di sviluppare la malattia. Per questo, ricerca e formazione sono le due vocazioni della SID come fortemente ribadito in occasione del recente XXV Congresso della Società che si è svolto a Bologna. L'appuntamento, tra l'altro, è coinciso con il cinquantesimo anno di fondazione della Società offrendo l'opportunità di trarre un bilancio dell'attività svolta ma, soprattutto, di guardare avanti. La nostra politica è quella di puntare sui giovani diabetologi sostenendoli nelle loro attività di ricerca. Per questo, negli ultimi 5-6 anni SID ha stanziato oltre 2,5 milioni di euro per il sostegno della ricerca, attraverso borse di studio, assegni di ricerca e finanziando progetti».
Quali sono le ricerche più promettenti?
«Numerose - assicura Del Prato - Ne ricordo tre, tutti multicentrici. Il primo studio è stato disegnato per identificare il rischio cardiovascolare nelle persone con diabete. Il secondo ha arruolato circa 16mila persone in Italia con diabete di tipo 2 e verifica il significato del rischio di complicanza renale e quanto incida su un eccesso di rischio di malattia cardiovascolare. Un terzo, finanziato in parte dell'Aifa (Agenzia nazionale del farmaco) confronta due tipi di trattamento nei pazienti di tipo 2, non tanto per quanto riguarda la loro capacità di garantire un buon controllo della glicemia, ma soprattutto per verificare se questi trattamenti abbiano un effetto specifico sul rischio di malattia cardiovascolare (infarto, ictus, gangrene). Insomma, si cerca di capire quali tra due terapie funzioni meglio. Questi studi hanno il vantaggio di poter rispondere a domande relative alla gestione della malattia con possibili ricadute sulle pratiche cliniche di milioni di persone con diabete».
Eppure molti malati, informati sulle nuove possibilità terapeutiche, si lamentano per le continue restrizioni. Come mai?
«La crisi si fa sentire anche in questo campo, ma riteniamo che le Società Scientifiche possano e debbano interloquire con le agenzie che verificano le indicazioni e la rimborsabilità dei nuovi farmaci al fine di trovare soluzioni eque e condivise a tutela del diritto alla salute delle tante persone con diabete e nel rispetto di un uso razionale delle risorse. Riteniamo però che un grosso sforzo debba essere fatto in tema di prevenzione».
Come?
«Ci sono varie possibilità, almeno per il diabete tipo 2. Innanzitutto migliorare la consapevolezza di tutti le persone non diabetiche. Purtroppo gli italiani conoscono abbastanza bene cosa li esponga al rischio ma sono resistenti a mettere in atto misure adeguate. Forse dovremmo migliorare la conoscenza partendo dalle scuole, inserendo nel curriculum una vera e propria materia di studio come "educazione alla salute". Magari c'è bisogno di far conoscere quali sono le conseguenze di una mancata prevenzione. Infine si potrebbe agire anche sul piano economico. Così come tassiamo fumo, alcol e tante altre sostanze nocive, perché non tassare anche gli alimenti ipercalorici e potenzialmente poco salubri? Ma siccome il tema tasse ha sempre un aspetto negativo, perché non de-tassare i cibi salubri come verdura e frutta, così da facilitarne l'uso. Se costano meno, le persone sono più invogliate ad acquistarle e se si alimentano meglio hanno meno problemi di salute con conseguente risparmio di risorse».
Tratto da: Quotidiano Sanità, Donatella Barbetta, 30 giugno 2014