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La terapia che non si vede. Un’iniezione dopo la dialisi previene le complicanze delle malattie renali

Arriva in Italia etelcalcetide un nuovo farmaco per il trattamento dell’iperparatiroidismo secondario a malattia renale cronica. È efficace, non interferisce con la vita del paziente e promette un’aderenza del 100%.

«Scoprire di essere malato di reni è un’esperienza traumatica: spesso avviene all’improvviso. La malattia è silente, quindi la diagnosi in molti casi arriva tardi, quando ormai è necessaria la dialisi. E la persona vede la propria vita sconvolta, con ricadute anche pesanti sulle relazioni sociali, personali e professionali. La dialisi è una terapia salvavita ma è molto invasiva e, anche se i pazienti sono costretti ad adattarsi a questo regime, vivono con apprensione la limitazione della libertà che esso impone».

Ecco il racconto dell’incontro con le malattie renali che fa Giuseppe Vanacore, presidente dell’ANED, l’Associazione nazionale emodializzati  dialisi e trapianto che da quasi mezzo secolo rappresenta e sostiene i malati di reni.

Sono questi pazienti che da oggi potranno disporre di un arma in più per controllare la malattie renale e prevenire le serie complicanze a essa connesse.

È infatti disponibile anche in Italia etelcalcetide, un nuovo farmaco per il trattamento dell’iperparatiroidismo secondario in pazienti adulti con malattia renale cronica in emodialisi.

Il nuovo farmaco promette di garantire il massimo dell’efficacia avendo al contempo un impatto praticamente nulla sulla qualità di vita del malato: viene infatti somministrato endovena dal personale sanitario direttamente al termine della seduta di emodialisi tre volte a settimana garantendo in questo maggior controllo della terapia e migliorando l’aderenza del paziente.

Un circolo vizioso

L’iperparatiroidismo secondario è una complicanza comune della malattia renale cronica. È la diretta conseguenza del progressivo declino della funzionalità renale che porta a un’alterazione del metabolismo di calcio, fosforo e vitamina D.

Il suo nome è dovuto a un fenomeno che avviene come conseguenza dell’abbassamento dei livelli di calcio: l’ipocalcemia porta le paratiroidi, quattro piccole ghiandole situate nella parte intermedia del collo, ad aumentare la sintesi dell’ormone paratiroideo, che è il principale regolatore dei livelli circolanti di calcio.

Il “risveglio” delle paratiroidi, però, attiva un circolo vizioso con conseguenze molto serie: i livelli paratormone crescono e portano a un aumento eccessivo della calcemia nel sangue a dispetto della densità minerale ossea. Il calcio in eccesso così finisce per accumularsi a livello vascolare.

«Questa complicanza costituisce un vero problema clinico», spiega Francesco Locatelli, direttore emerito del dipartimento di Nefrologia, dialisi e trapianto renale all’Ospedale “A. Manzoni” di Lecco. «Infatti in Italia i pazienti in dialisi sono 50 mila e almeno la metà di chi inizia un percorso di dialisi soffre di iperparatiroidismo secondario, condizione che progredisce con il passare del tempo in dialisi e spesso anche dopo il trapianto. L’eccessiva produzione di paratormone è responsabile delle cosiddette calcificazioni metastatiche, il depositarsi di sali di calcio nelle arterie e nei tessuti molli, anche nei parenchimi nobili, come cuore e polmoni, con la conseguente compromissione della funzione di questi organo vitali», aggiunge. «Inoltre le calcificazioni vascolari aumentano la rigidità delle pareti dei vasi e, associate alle calcificazioni delle valvole cardiache, sono la principale causa dell’aumento della mortalità cardiovascolare di questi pazienti».

Una gestione difficile

Oggi il trattamento dell’iperparatiroidismo secondario si basa sull’uso combinato di diversi farmaci che puntano a riequilibrare i livelli alterati di fosforo, vitamina D, calcio e paratormone.

«Ci sono i chelanti del fosforo che limitano l’assorbimento intestinale e riducono così i livelli sferici di fosfato», spiega Mario Cozzolino, direttore della U.O.C. di Nefrologia e Dialisi, ASST Santi Paolo e Carlo, presidio San Paolo e professore di Nefrologia all’università di Milano. «Ne esistono diversi tipi, ma nonostante il 90% de pazienti riceva una prescrizione per almeno uno di questi farmaci, oltre il 50% non è aderente alla terapia».

La seconda tipologia di farmaci, continua il nefrologo, «sono quelli che incrementano l’apporto di vitamina D, orale o in soluzione iniettabile. Infine ci sono i calciomimetici, una famiglia di farmaci che riduce i livelli di paratormone agendo sul recettore sensibile al calcio che ne regola l’equilibrio all’interno di diversi organi. L’unico farmaco di questa classe disponibile in commercio per iperparatiroidismo secondario a nefropatia cronica è il cinacalcet>>.

Si tratta di una terapia molto efficace, ma non sempre è ben tollerata, avverte Locatelli: «in una parte dei pazienti porta nausea e vomito, sintomi che a volte non sono risolvibili neppure con un adeguamento del dosaggio o dell’orari di assunzione del farmaco. Il rischio è l’abbandono della cura da porta del paziente spesso senza nemmeno informare il medico».

Ed è ciò che frequentemente avviene.

Rispetto agli altri pazienti con malattie croniche, quelli con malattia renale assumono un numero superiore di terapie orali, con un numero di pillole che può raggiungere le 20 al giorno. Non stupisce allora che, secondo quanto emerso da uno studi pubblicato sul Journal of Medical Economics nel 2011, dopo 12 mesi dall’inizio del trattamento, ben il 46 per cento di quanti dovrebbero assumere il cinacalcet non è aderente alla terapia.

Ciò ha ricadute dirette sul successo della terapia: nonostante l’ampia gamma di opzioni terapeutiche disponibili, solo il 15-20 per cento dei pazienti riesce a raggiungere contemporaneamente i livelli raccomandati di ormone paratiroideo, calcio e fosforo secondo uno studio pubblicato sul Journal of Nefrology.

Identikit del nuovo farmaco

È in questo scenario che si inserisce etelcalcetide: è un nuovo agente calciomimetico di seconda generazione che si lega e attiva il recettore sensibile del calcio, espresso sulle cellule delle ghiandole paratiroidee, riducendo la secrezione di ormone paratiroideo.

È indicato per il trattamento dell’iperparatiroidismo secondario in pazienti adulti con malattia renale cronica in emodialisi nel dosaggio iniziale di 5 mg da somministrare in bolo 3 volte a settimana, al termine di ogni seduta dialitica. Può comunque essere necessario un aggiustamento della dose in qualunque momento durante il trattamento sulla base dei livelli sferici tanto del paratormone, tanto del calcio.

In Italia potrà essere prescritto dai centri ospedalieri, dagli specialisti in nefrologia o dai centri dialisi individuati dalle Regioni.

I vantaggi: efficacia…

Il profilo di efficacia e sicurezza di etelcalcetide è stato analizzato nell’ambito di tre studi randomizzati controllati di fase III pubblicati tutti sul Journal of the American Medical Association. Due di questi hanno confrontato il farmaco con il placebo, il terzo direttamente con l’attuale standard di trattamento: cinacalcet.

«L’Italia è stata coinvolta negli studi clinici di fase III che sono alla base dell’approvazione EMA del farmaco con ben 18 centri grazie ai quali siamo riusciti a trattare 63 pazienti in differenti studi», ha illustrato l’amministratore delegato di Amgen Italia André Tony Dahinden che ha inoltre elogiato la nostra Agenzia del farmaco per la celerità con cui ha reso il nuovo farmaco disponibile ai pazienti. «Aifa ha riconosciuto il valore del farmaco garantendo tempi di rimborsabilità molto brevi: basti pensare che dalla sottomissione del dossier alla Gazzetta Ufficiale sono passati solo 6 mesi, che significa che l’approvazione ha subito un anticipo di 8 mesi rispetto alla tempistica media di approvazione».

Nei primi due studi a cui hanno preso parte complessivamente 1.023 pazienti con iperparatiroidismo secondario da moderato a grave dovuto a malattia renale cronica avanzata, etelcalcetide, in aggiunta a chelanti del fosforo calcitriolo o analoghi della vitamina D attiva, ha ridotto di almeno il 30 per cento i livelli di ormone paratiroideo in circa il 75% dei pazienti (rispetto a circa il 9% del gruppo placebo). Inoltre circa la metà dei pazienti ha abbassato il livelli del paratormone a livelli inferiori a 300 pg/mL (rispetto a circa il 5% del gruppo placebo).

Nello studio testa a testa, invece, etelcalcetide si è dimostrato superiore a cinacalcet: il 68,2% dei pazienti trattati con etelcalcetide ha infatti ottenuto una riduzione dell’ormone paratiroideo maggiore del 30% (a fronte del 57,7% nel gruppo cinacalcet). Il nuovo farmaco ha anche consentito a un maggior numero di pazienti di raggiungere riduzioni più marcate (di almeno il 50%) del paratormone (52,4 nel gruppo etelcalcetide contro il 40,2% nel gruppo cinacalcet).

Perfettamente sovrapponibile è invece risultata essere la frequenza degli effetti collaterali: gli effetti avversi più comuni sono stati spasmi muscolari, diarrea, nausea, vomito, cefalea e reazioni correlati all’infusione.

… e aderenza

La maggiore efficacia, però, è solo uno dei vantaggi di etelcalcetide rispetto al trattamento attuale.

«La lunga emivita del nuovo farmaco consente una frequenza di assunzione che può essere ridotta a 3 volte alla settimana in coincidenza con le sedute dialitiche durante le quali la somministrazione per via endovenosa è particolarmente agevole e assume un particolare valore clinico perché viene gestita direttamente dal personale medico-infermieristico», ha detto Cozzolino. «Ciò sgrava il paziente dalla necessità di assumere tutti i giorni la terapia che si aggiunge al gran numero di compresse che deve già prendere e permette anche di risolvere il problema della scarsa aderenza, una delle principali criticità».

Ed è anche questo un modo di incidere sulla qualità di vita dei malati. Dopo tutto - ha detto Dahinden, «la nostra mission di azienda è di essere al servizio dei pazienti. Se non serviamo ai pazienti non serviamo a nulla».

Tratto da: Healthdesk, 225 ottobre 2017