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Conoscere e curare il cuore 2020: interconnessione, medicina personalizzata e imaging al centro dei lavori

Le parole chiave della XXXVII° edizione del congresso “Conoscere e curare il cuore” organizzato come ogni anno a Firenze sono interconnessione, medicina personalizzata, evoluzione delle tecniche interventistiche e di imaging … e tanto altro.

Quanto all’interconnessione quale nuovo paradigma per una lettura innovativa delle patologie, la ricerca scientifica conferma collegamenti tra valori pressori e demenza, microbiota intestinale e malattie cardiache, BPCO ed infarto.

Il progressivo invecchiamento della popolazione ha determinato nel corso degli ultimi decenni un profondo cambiamento nosografico caratterizzato dalla progressiva espansione di alcune problematiche cliniche particolarmente frequenti nell’età geriatrica.

Tra queste spicca, per rilevanza clinica e socioeconomica, la demenza, una condizione la cui prevalenza è destinata a triplicare nel mondo nel corso dei prossimi 30 anni. Lo studio Coronary Artery Risk Development in Young Adults (CARDIA), ad esempio, ha dimostrato come l’esposizione cumulativa ai diversi fattori di rischio cardiovascolare a partire dall’età adolescenziale si associ, nel corso di un periodo di osservazione di 25 anni, a peggiori performances cognitive, con una prevalente compromissione delle funzioni esecutive e della memoria verbale. Più recentemente, le evidenze derivanti dai dati della coorte inglese Insight hanno rivelato una significativa associazione tra l’aumento dei valori pressori nell’età giovane adulta ed un maggior danno a livello della sostanza bianca cerebrale ed un più piccolo volume cerebrale nelle decadi successive. Il paziente iperteso, anche senza evidenza clinica di malattia cerebrovascolare, presenta performances cognitive mediamente inferiori rispetto al normoteso. Numerosi studi longitudinali, nel corso degli ultimi anni, hanno portato ad ipotizzare che il trattamento antipertensivo possa rappresentare un prezioso strumento per prevenire la comparsa del deterioramento cognitivo e della demenza.

Le informazioni sulla correlazione tra microbiota intestinale e rischio cardiovascolare sono crescenti. Alcune specie del microbiota influenzano il metabolismo di specifici componenti alimentari (come la carnitina, la colina, la forfatidilcolina), sintetizzando il precursore della TMAO, una molecola con documentata attività lesiva sulla parete vascolare. Altri ceppi metabolizzano invece la fibra alimentare, sintetizzando acidi grassi a corta catena, dotati tra l’altro di una significativa attività antinfiammatoria, oppure producono metaboliti secondari originati da molecole presenti negli alimenti (come l’enterodiolo che deriva dalla lignina), caratterizzati da un’attività di protezione vascolare. Sono anche documentati effetti di natura prebiotica da parte di composti vegetali (come la berberina o il resveratrolo), che indurrebbero favorevoli modificazioni della composizione del microbiota. La possibilità di influenzare la composizione e l’attività del microbiota intestinale rappresenterà probabilmente, in futuro, un componente importante delle strategie di prevenzione cardiovascolare.

È ormai indiscutibile il fatto che la mortalità della Bronco Pneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) sia prevalentemente cardiovascolare, piuttosto che respiratoria. Sorprendentemente, il legame tra BPCO e malattia coronarica va ben oltre quanto atteso sulla base dei fattori di rischio condivisi: la prevalenza di cardiopatia ischemica è, infatti, eccezionalmente elevata (stimata tra il 20% e il 60% dei pazienti con BPCO a seconda delle popolazioni studiate) e nettamente più frequente rispetto alla popolazione generale. Molteplici evidenze scientifiche indicano, inoltre, che nella fase “stabile” di BPCO il rischio di infarto miocardico acuto è aumentato di circa 2-3 volte rispetto alla popolazione di controllo senza patologia polmonare, un dato tale da suggerire che la BPCO sia da considerare un fattore di rischio maggiore, alla stessa stregua del diabete o della dislipidemia. Peraltro, l’aspetto di maggior interesse clinico (e concettuale) riguarda la frequenza impressiva con cui viene diagnosticata una instabilizzazione delle condizioni cardiache ed un danno miocardico infartuale nei pazienti ospedalizzati per Esacerbazione Acuta di BPCO (AE-BPCO). La probabilità di un danno miocardico ischemico sale di circa 2-5 volte nei primi 3 giorni post AE-BPCO e scende progressivamente nel primo mese, mantenendo un modesto aumento del rischio fino ad 1 anno. Pertanto la finestra temporale di massimo rischio è collocabile nella prima settimana post-AE-BPCO, quando la probabilità di eventi coronarici acuti raggiunge l’apice rispetto alla fase pre-AE-BPCO.

“Grazie alle strategie di imaging intracoronarico ad alta risoluzione” - commenta Francesco Prati, Presidente della Fondazione Centro per la Lotta contro l’Infarto – “è possibile pianificare strategie sempre più mirate e personalizzate per la cura delle patologie cardiovascolari. Numerosi studi retrospettivi hanno documentato che la maggioranza delle placche responsabili di eventi coronarici acuti sono di grado lieve alla valutazione angiografica basale. Pertanto, la sola coronarografia non è uno strumento affidabile per l’identificazione delle stenosi a rischio di instabilità. Studi recenti hanno dimostrato che l’occlusione trombotica dopo la rottura di un ateroma ricco di lipidi con un nucleo necrotico coperto da un sottile strato fibroso di tessuto intimale (il cosiddetto “fibroateroma a capsula sottile”, TCFA) sia la più comune causa di IMA e morte per cause cardiache. Conseguentemente sono stati condotti numerosi studi prospettici con tecniche di imaging intravascolare, al fine di rilevare in vivo le caratteristiche delle placche coronariche ad alto rischio. Tra questi, lo studio CLIMA recentemente ha arruolato 1.003 pazienti sottoposti a OCT dell’arteria discendente anteriore sinistra nel contesto di coronarografia clinicamente indicata (53.4% con ACS). La presenza di un’area luminale minima <3.5 mm2, lo spessore del cappuccio fibroso <75 nm, l’estensione circonferenziale dell’arco lipidico >180° e la presenza di macrofagi risultavano associati ad un aumentato rischio dell’endpoint primario, un composto di morte cardiaca e IMA della lesione target. Inoltre, la presenza simultanea di questi quattro criteri OCT nella stessa placca, che si verificava nel 18.9% dei pazienti con endpoint primario, era un predittore indipendente di eventi. Lo studio CLIMA ha, dunque, ampliato le conclusioni raggiunte da studi precedenti, sottolineando l’importanza clinica dell’infiammazione locale, valutata dalla presenza di macrofagi e dallo spessore del cappuccio fibroso, come caratteristica aggiuntiva d’alto rischio, oltre alla presenza ed all’estensione dei componenti lipidici.

E ancora, recenti studi scientifici hanno indagato gli enigmi della cardiopatia ischemica rilevando come chi dorme poco, non si lava i denti e non fa colazione abbia un rischio aumentato di infarto.

Studi epidemiologici e dati sperimentali indicano una forte associazione della deprivazione di sonno con lo sviluppo di fattori di rischio cardiometabolici, aterosclerosi polidistrettuale e coronaropatia. Nello specifico, la deprivazione di sonno è stata associata a disregolazione autonomica, disfunzione endoteliale, ipercoagulabilità, insulino-resistenza e stato infiammatorio sistemico. L’iperattivazione adrenergica è la principale responsabile dello sviluppo di ipertensione arteriosa attraverso fenomeni di vasocostrizione, tachicardia e ritenzione di sale. La disregolazione del sistema nervoso autonomo inoltre, attraverso inibizione della funzione pancreatica e aumento della cortisolemia, è stata associata allo sviluppo di insulino-resistenza, iperglicemia e diabete conclamato. In aggiunta a ciò, la deprivazione di sonno facilita lo sviluppo di obesità attraverso un alterato rilascio di grelina e di leptina, principali responsabili dell’aumentato senso di fame.

Nelle ultime due decadi, un interesse crescente è stato rivolto al possibile legame tra parodontopatia e malattie cardiovascolari. I primi studi epidemiologici osservazionali che esaminavano l’associazione tra igiene orale e malattie cardiovascolari avevano dimostrato che la scarsa salute periodontale era associata ad un aumentato rischio di malattie cardiovascolari. È stato esaminato un campione della Scottish Health Survey comprendente 11.869 soggetti senza malattia cardiovascolare nota al basale. Inoltre, in un sottogruppo di 4.830 pazienti, i ricercatori valutavano l’esistenza di un’associazione tra il lavare poche volte i denti ed il riscontro di aumentati livelli ematici di Proteina C Reattiva (PCR) e fibrinogeno, marcatori rispettivamente di infiammazione e, per il secondo, anche di ipercoagulabilità. I risultati dello studio evidenziavano come, in 8 anni medi di follow-up, si fossero manifestati 555 eventi cardiovascolari globali, di cui 70 fatali. Il 74% degli eventi cardiovascolari totali era di origine coronarica, dimostrando come i soggetti che lavavano poco i loro denti avessero un più alto rischio di malattia cardiovascolare.

Il pattern dietetico è cambiato significativamente negli ultimi decenni, e si stima che dal 20 al 30% degli adulti oggi salti la colazione. Ad oggi ci sono evidenze sul fatto che saltare la colazione possa essere associato allo sviluppo di aterosclerosi subclinica con conseguente aumento di morbilità e mortalità cardiovascolare. Più recentemente uno studio pubblicato da Uzhova et al. ha fornito importanti elementi a dimostrazione della presenza e distribuzione delle lesioni aterosclerotiche vascolari subcliniche nei soggetti che saltano la colazione. I risultati dello studio evidenziavano come il gruppo di soggetti che saltava la colazione rispetto a chi l’assumeva regolarmente, aveva un più alto carico aterosclerotico polidistrettuale con una più alta prevalenza di aterosclerosi non coronarica indipendentemente dalla presenza di fattori di rischio cardiovascolari convenzionali. Il messaggio importante dello studio resta che l’abitudine a saltare la colazione è un importante marcatore per individuare categorie ad aumentato profilo di rischio cardiovascolare su cui indirizzare misure preventive e terapeutiche più efficaci.

Studi recenti hanno indagato le opportunità di medicina personalizzata in relazione allo scompenso cardiaco a frazione d’eiezione preservata. Lo Scompenso Cardiaco (SC) a funzione sistolica preservata (HFpEF) rappresenta circa il 50% di tutti i casi di SC, con una sopravvivenza lievemente migliore rispetto ai pazienti con SC a funzione sistolica ridotta (HFrEF), ma con incidenza in costante incremento per l’invecchiamento della popolazione e di conseguenza con un elevato burden socio-economico destinato ad aumentare nel tempo.

HFpEF è a tutt’oggi il più grande “unmet medical need”, in base ai dati epidemiologici, poiché nessun farmaco è riuscito a migliorare ad oggi l’outcome dei pazienti affetti da HFpEF. L’estrema eterogeneità fisiopatologica, clinica e di comorbilità associate, che caratterizza HFpEF spiega, in gran parte, l’insuccesso di una strategia terapeutica omnicomprensiva in pazienti HFpEF e pone le basi per una medicina personalizzata, volta alla cura di specifici fenotipi, con terapie che abbiano dimostrato, in determinati sottogruppi di pazienti HFpEF, di poter ridurre la morbilità e migliorare la qualità della vita. Nell’eterogeneità di HFpEF risiede una chance terapeutica.

Il processo infiammatorio che sottende a HFpEF colpisce, oltre al cuore, organi come polmoni, muscolo scheletrico e reni, potendo portare rispettivamente a ipertensione polmonare, debolezza muscolare e ritenzione di sodio.

I singoli passaggi di questa cascata di eventi rappresentano essi stessi possibili specifici target per strategie terapeutiche personalizzate.

Negli ultimi anni, vari documenti di consenso hanno delineato le diverse modalità applicabili alla fenotipizzazione del paziente con HFpEF. In base ad opinioni di esperti, un altro elemento indispensabile per poter fenotipizzare i pazienti con HFpEF è rappresentato dall’uso di biomarcatori, in grado, ad esempio, di identificare sottogruppi con prevalente fibrosi miocardica, con elevati marcatori di danno/ischemia miocardica o ancora con alterati marcatori di infiammazione.

Dall’integrazione di tali biomarcatori con parametri clinico/fisiopatologici, elettrocardiografici ed ecocardiografici, possono delinearsi strategie terapeutiche differenti nei diversi pazienti con HFpEF. Gli ingredienti di un approccio di medicina personalizzata sono: esercizio fisico e restrizione calorica, aCE-inibitori e sartani, diuretici dell’ansa, statine, Inibitori dell’angiotensina e neprilisina (ARNI), Inibitori del cotrasporto sodio-glucosio-2 (SGLT-2i).

Quanto alle nuove tecniche interventistiche, studi dimostrano l’efficacia della denervazione delle arterie renali con i sistemi di seconda generazione nella cura dell’ipertensione resistente. Studi iniziali di Denervazione Renale, (RDN) per il trattamento dell’ipertensione (HTN) non controllata mediante ablazione a radiofrequenza delle arterie renali, hanno dimostrato che l’RDN è una strategia terapeutica efficace nel ridurre la Pressione Arteriosa (PA).

Sono oltre un miliardo le persone in tutto il mondo che soffrono di HTN, di queste circa 150 milioni in Europa, ed il numero è in continua crescita: entro il 2025 si prevede un aumento del 15-20% con quasi 1.5 miliardi di persone ipertese.

Questa elevata prevalenza è costante in tutto il mondo, indipendentemente dallo stato sociale e dal reddito. L’ipertensione diventa progressivamente più comune con l’avanzare dell’età, negli adulti la prevalenza è intorno al 30-45% e diviene superiore al 60% nelle persone di età maggiore ai 60 anni. Si stima inoltre che oltre 9 milioni di persone muoiano ogni anno per complicanze legate all’ipertensione come infarto del miocardio, stroke ed insufficienza renale.

Questi impressionanti dati epidemiologici sottolineano la necessità di nuove strategie terapeutiche per il controllo dei valori pressori, (PA) considerando che la riduzione anche di pochi millimetri di pressione è associata a significative riduzioni di eventi cardiovascolari.

I sistemi di denervazione di seconda generazione erano nati per migliorare la sicurezza e l’efficacia delle procedure di RDN. Tra i nuovi dispositivi oggetto di importanti investimenti da parte delle aziende produttrici e di notevole attenzione clinica vi è il sistema Symplicity Spyral, sviluppato mediante l’utilizzo di un sistema flessibile con 4 elettrodi montati su un catetere 4F per determinare durante l’erogazione di energia a 4 lesioni simultanee con una distribuzione ad elica. Lo studio SPYRAL HTN-ON MED ha randomizzato 80 pazienti con elevati valori sistolici e diastolici di pressione ambulatoriale malgrado la somministrazione di terapia antiipertensiva (da 1 a tre farmaci). I risultati dello studio hanno mostrato una significativa riduzione a 6 mesi della pressione ambulatoriale nei pazienti trattati con RDN ed in particolare una significativa riduzione della pressione sistolica sia nelle ore notturne che diurne.

Una patologia tutta al femminile: la Dissezione Coronarica Spontanea (SCAD). “Questa patologia” - conferma Eloisa Arbustini, Centre for Inherited Cardiovascular Diseases – IRCCS, Foundation - è causa emergente di sindrome coronarica acuta, infarto miocardico acuto e morte improvvisa.

I soggetti maggiormente colpiti dalle SCAD sono individui senza o con pochi fattori di rischio cardiovascolare, in particolar modo le giovani donne, cosa che suggerisce una fisiopatologia nettamente diversa rispetto alla più comune causa aterosclerotica. Le attuali evidenze indicano che non solo la patologia è ben più diffusa rispetto a quanto precedentemente ritenuto, ma anche che la gestione clinica può essere nettamente differente rispetto alle sindromi coronariche acute di origine aterosclerotica.

La patogenesi della SCAD è multifattoriale, ascrivibile a cause genetiche, squilibri ormonali, sottostanti arteriopatie o altri fattori precipitanti che possono fungere da trigger per l’insorgenza della dissezione (es. infiammazione sistemica, intenso esercizio fisico, ecc.).

Nello specifico, la SCAD si associa principalmente a due condizioni quali il peripartum e la displasia fibromuscolare. La dissezione coronarica è infatti la causa più comune di Infarto Miocardico Acuto (IMA) associato alla gravidanza (43%) e insorge più spesso nell’ultimo trimestre o nell’immediato peripartum. Gli squilibri ormonali legati alla gestazione sembrerebbero rappresentarne la causa principale portando ad alterazioni del connettivo vascolare. Estrogeni e potrebbero infatti favorire alterazioni strutturali all’interno della parete del vaso, causandone il progressivo indebolimento.

La SCAD, che rappresenta tra l’1 e il 4% delle cause di Sindrome Coronarica Acuta (SCA), è più diffusa nelle donne con meno di 60 anni e che spesso non presentano fattori di rischio cardiovascolare.

Nel corso dell’ultimo decennio, l’imaging intracoronarico ha rappresentato una svolta decisiva per porre diagnosi di SCAD, soprattutto nei casi dubbi. Sia l’ultrasonografia intravascolare (Intra-Vascular Ultra Sound, IVUS) che l’OCT possono essere utilizzati per visualizzare la parete vasale, consentendo di identificare la rottura intimale, il falso lume o l’IMH. Sebbene entrambe le metodiche siano utili, l’OCT è preferibile all’IVUS sia a causa della più alta risoluzione spaziale che per una maggiore sensibilità nell’identificare le anomalie sopradescritte.

Due nuovi farmaci per la cura del diabete. I GLP1-RAs e gli SGLT2i rappresentano due classi di farmaci senza precedenti, poiché sono i primi ad apportare un concreto beneficio sul rischio cardiovascolare, oltre che a ridurre i livelli di emoglobina glicata nei soggetti diabetici. Il Gastric Inhibitory Polypeptide (GIP) ed il Glucagon-Like Peptide 1 (GLP1) rappresentano le principali molecole appartenenti alla classe delle incretine, un gruppo di ormoni secreti dalle cellule L e K intestinali in risposta all’ingestione di un pasto. Il GLP1 esplica la sua azione legandosi al proprio recettore che viene espresso in diversi tessuti, incluse le B-cellule pancreatiche: qui il GLP1 stimola il rilascio di insulina glucosio-dipendente. I farmaci SGLT2 inibitori esplicano il loro effetto mediante il blocco selettivo di questi trasportatori, impedendo il riassorbimento tubulare di glucosio e favorendone l’escrezione renale.

La maggior parte dei trial clinici con gli SGLT2i nei soggetti diabetici ha dimostrato un significativo calo ponderale nei pazienti trattati rispetto ai pazienti di controllo o trattati con placebo. L’utilizzo di questa tipologia di molecole ha diversi altri vantaggi.

Sembra che queste molecole abbiano un effetto favorevole sul profilo lipidico e la funzionalità delle B-cellule pancreatiche. Come dimostrato nello studio DECLARE-TIMI-58, gli SGLT2i sembrano avere un effetto preponderante sui pazienti con insufficienza cardiaca a frazione d’eiezione ridotta, riducendo il numero di ricoveri e la mortalità.

Questo sembra essere legato a fenomeni principalmente non metabolici, non legati dunque alla riduzione della progressione dell’aterosclerosi. Potrebbero infatti giocare un ruolo i seguenti meccanismi: la diuresi osmotica che inducono questi farmaci, riducendo il precarico ventricolare sinistro, potrebbe condurre ad un miglioramento della funzionalità cardiaca; il calo di peso dovuto al bilancio calorico negativo; la riduzione della pressione arteriosa dovuta alla perdita di liquidi.

Oltre ai benefici cardiovascolari, sono stati osservati miglioramenti nella funzionalità renale. Gli effetti dei GLP1-RAs, al contrario degli SGLT2i, non si manifestano prima di diversi mesi.

Questo rende ragione del probabile effetto metabolico che coinvolge una riduzione dei fenomeni aterosclerotici ed infiammatori.

Come conseguenza, i GLP1-RAs sembrano essere la scelta più appropriata nel caso di un paziente diabetico senza una storia di insufficienza cardiaca, ma a rischio per IMA o stroke.

Tratto da: Pharmastar, 06 ottobre 2020