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Che cos’è il «piede diabetico» e quali sono le regole da seguire per la cura

Si manifesta con un’alterazione della sensibilità ed è uno degli effetti maggiormente temuti della malattia metabolica. Ma spesso viene trascurato e ciò comporta seri rischi.

Sensazione di freddo e di formicolio al piede, che ha la pelle più pallida e sottile, ulcere sulla pianta e sulle dita, callosità nei punti di appoggio, vesciche e possibili deformità (alluce valgo o dita a martello, per esempio). Sono i sintomi tipici del piede diabetico, una delle complicanze del diabete. In Italia ne soffrono 80mila nuove persone ogni anno. La condizione è determinata da una neuropatia periferica che provoca un’alterazione della sensibilità dell’arto e che può accompagnarsi a una vasculopatia, con riduzione della circolazione arteriosa dovuta alla formazione di placche sulle pareti dei vasi sanguigni e loro conseguente restringimento. Nel piede diabetico c’è un alto rischio d’infezioni. Se le ulcerazioni non vengono adeguatamente trattate, possono evolvere verso la gangrena rendendo necessaria nei casi più gravi persino l’amputazione, anche di tutta la gamba. Un destino che riguarda ogni anno molte persone.

Pericolo troppo sottovalutato

La sottovalutazione del pericolo, purtroppo, è frequente. «Il paziente avendo una diminuzione della percezione sensoriale per anni può non avvertire una serie di traumi fino alla comparsa di ferite, che si possono formare da vesciche per scarpe troppo strette, da ustioni al contatto di stufe, acqua bollente, sabbia d’estate, o frammenti conficcati sotto il piede» spiega Cristiana Vermigli, coordinatrice nazionale del gruppo di studio sul piede diabetico della Società italiana di diabetologia e dell’Associazione medici diabetologi, in servizio presso il centro di endocrinologia e malattie metaboliche dell’azienda ospedaliera di Perugia. «È fondamentale che il piede di un soggetto diabetico venga visitato almeno una volta all’anno per scoprire i primi segnali di un danno dei nervi e di arteriopatia e per ispezionare eventuali lesioni preulcerative. Un callo non curato tende a ulcerarsi. L’aumento di pressione dei tessuti sottocutanei, infatti, crea un ematoma che da giallo diventa rosso e poi nero, bucando la pelle, e dall’ulcera possono penetrare in poco tempo i batteri responsabili di infezioni».

Danni del Coronavirus

Cristiana Vermigli lancia un allarme: «Nell’ultimo anno i pazienti sono arrivati nei Pronto soccorso più spesso in condizioni gravi, con il piede già in gangrena e setticemia in corso, tali da richiedere più spesso amputazioni di parti più piccole, come le dita, o maggiori, fino al ginocchio o oltre». Ambulatori chiusi e accessi contingentati nei servizi sanitari a causa del Covid hanno fatto saltare i controlli e provocato ritardi nelle diagnosi. A volte la stessa paura di pazienti e caregiver a recarsi in ospedale per non contrarre il virus ha portato a sottovalutare il problema. Per fare qualche esempio, «all’ospedale di Perugia da marzo 2020 a marzo 2021 l’aumento di amputazioni è stato di oltre il 40 per cento» osserva la dottoressa Vermigli. Al Policlinico Tor Vergata di Roma, uno degli ospedali più grandi della Capitale, tra gennaio e febbraio 2021 rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente, in pre-pandemia, «le amputazioni maggiori sono cresciute del 60 per cento e quelle minori del 50» racconta Luigi Uccioli, il responsabile dell’unità Piede diabetico. «Gli accessi in Pronto soccorso sono scesi del 42 per cento, il che significa che i pazienti per paura del Covid arrivano proprio quando non ne possono più fare a meno e in molti casi è tardi. Un paio di persone amputate sono decedute per sepsi già durante il ricovero».

Il protocollo di salvataggio

«Se l’amputazione è inevitabile va fatta, ma dobbiamo fare di tutto per evitarla» sottolinea Luigi Uccioli, professore associato di endocrinologia e direttore dell’unità Piede diabetico presso il policlinico universitario Tor Vergata di Roma. «Nel 2010 abbiamo analizzato il destino di 510 pazienti diabetici con ischemia critica al piede ed elevato rischio di amputazione, trattati secondo il protocollo “di salvataggio d’arto”, che prevede una pulizia profonda della ferita e un intervento di rivascolarizzazione dell’arto e la gestione delle comorbidità. «Di questi, il 70 per cento è guarito, il 15 per cento ha subìto un’amputazione e un altro 15 per cento è deceduto. A una nuova valutazione a distanza di circa cinque anni abbiamo osservato che tra i casi guariti la mortalità era in linea con quella dei pazienti con diabete senza complicanze agli arti inferiori e di età equivalente, mentre nei casi amputati risultava una mortalità maggiore in termini di numero e anche più precoce». Gli esiti peggiori sono legati a fattori di rischio cardiocircolatori più elevati? «No, i pazienti amputati non presentano un quadro clinico cardiovascolare più grave rispetto a chi guarisce. Lo ha dimostrato anche uno studio inglese del 2016, che ha preso in esame i database dei medici di medicina generale, da cui emerge che i soggetti amputati hanno una mortalità accentuata e questo eccesso non è imputabile alle complicanze cardiovascolari. Nostre ricerche recenti, invece, mostrano che una morte prematura dopo un’amputazione maggiore, cioè sopra alla caviglia, si riscontra nei diabetici in dialisi, che sono tra i malati più fragili in assoluto, e in chi nella fase post amputazione ha sviluppato una condizione di depressione, magari legata alla perdita di autonomia e autostima». C’è ancora poca consapevolezza dei pericoli? «Purtroppo sì, tra i pazienti ma anche fra medici non abbastanza competenti. L’amputazione è considerata la soluzione rapida da chirurghi non esperti di piede diabetico. Per questa ragione è importantissimo rivolgersi sempre ai centri specializzati per il trattamento del piede diabetico, anche se un po’ lontani da casa». Il paziente con piede diabetico che si ammala di Covid corre maggiori rischi? «Sì. È il paziente diabetico più complicato, che convive con almeno altre quattro patologie, quali cardiopatia ischemica, ipertensione, obesità e insufficienza renale. Di conseguenza, se contrae il virus è più vulnerabile».

Controlli saltati e ritardi nella diagnosi

La situazione è drammatica lungo tutto lo Stivale. Roberto Da Ros, direttore del centro diabetologico di Monfalcone e Gorizia (Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina), anche lui tra i maggiori esperti italiani della sindrome del piede diabetico, denuncia: «Da febbraio 2020 a dicembre 2020 i pazienti si sono presentati in media dopo un mese, a volte addirittura due, dalla presenza della lesione e oltre il 35 per cento è arrivato in urgenza, cioè con un’infezione acuta in atto al piede. Amputare il piede, la caviglia e tutta la coscia, è stata purtroppo l’unica soluzione salvavita nel 5 per cento dei casi contro l’1,6 del 2019». Ma, aggiunge: «Va detto però che durante il lockdown, stando a casa molte persone hanno anche ridotto occasioni di traumi e infezione».

L’abbassamento dell’età

Di solito chi sviluppa ulcere al piede è di sesso maschile e in media ha già compiuto 70 anni. «Durante la pandemia — sottolinea Vermigli — l’età si è abbassata a 65 anni, abbiamo però preso in carico anche cinquantenni e addirittura quattro pazienti adolescenti, tra 12 e 15 anni, obesi, con diabete di tipo 2 e lesioni al piede». Un piede arrossato, gonfio, che aumenta di temperatura: questi sono i segnali d’infezione che i pazienti e i loro caregiver non possono assolutamente ignorare. È importante che l’infezione sia trattata in fretta e in modo corretto, affinché non aggredisca l’osso e il piede non vada in gangrena e quindi debba essere amputato.

Come si cura

In caso di piede infetto va pulita bene la ferita, rimosso il tessuto contaminato e prescritta una terapia antibiotica mirata. In presenza di arteriopatia periferica si procede con un intervento di rivascolarizzazione (come l’angioplastica, che consiste nella dilatazione dell’arteria ostruita attraverso l’utilizzo di un palloncino) per ristabilire la circolazione del sangue nel piede. In attesa che la ferita si cicatrizzi, per evitare l’appoggio, si raccomanda di indossare idonei tutori che permettano di contenere il piede fasciato.

A chi rivolgersi

Innanzitutto al medico di famiglia, «che osserva il piede e, se evidenzia segni anomali e disfunzioni, indirizza l’assistito al centro diabetologico di riferimento, dove un team multidisciplinare lo prende in carico» spiega Vermigli. «L’equipe di base prevede un diabetologo, un podologo, un infermiere esperto e uno psicologo. In funzione delle necessità, viene allargata al radiologo interventista, chirurgo vascolare, dermatologo, ortopedico, infettivologo, dietista. Non tutti i centri hanno una rete specifica per il piede diabetico, la situazione è frammentata sul territorio, ma questo non deve essere una scusa per non curarsi. Anche se manca un team organizzato il diabetologo sa a quale specialista affidare il paziente per gestire le complicanze». Tuttavia «la letteratura internazionale dimostra che la presenza di un team multidisciplinare riduce certamente il numero delle amputazioni» fa notare Da Ros.

Prevenzione e controlli

Al paziente con diabete non affetto da neuropatia né arteriopatia periferica le linee guida internazionali raccomandano una visita di controllo all’anno. Chi ha una delle due complicanze, e quindi un basso rischio di ulcerazioni, deve farsi vedere dallo specialista ogni sei o dodici mesi. Se il rischio è moderato (entrambe le complicanze, o una delle due associata a deformità del piede): una volta ogni tre o sei mesi. Nelle situazioni più critiche (se la neuropatia o l’arteriopatia si combina a ulcera pregressa, amputazione, malattia renale in stadio avanzato): visite mensili o ogni 90 giorni. Il piede che ha perso sensibilità va monitorato tutti i giorni dal paziente o da chi bada a lui.

Tratto da: Corriere della Sera Salute, Chiara Daina, 17 giugno 2021