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Sul cuore il grasso pesa come il fumo

 

Gli americani rinunciano alla sigaretta ma non al fast food: ecco perché, dopo decenni di crescita, la loro aspettativa di vita è destinata a diminuire
MILANO - Sul piatto della bilancia dei fattori di rischio cardiovascolare l’aumento dell’obesità tra gli abitanti degli Stati Uniti compensa la rinuncia alla sigaretta. E alla fine la somma non cambia: per quelli che smettono di fumare c’è un sempre maggiore numero di persone obese, per cui la curva dell’aspettativa di vita, che secondo i Centers for disease control and prevention di Atlanta ha raggiunto il suo picco storico positivo, è destinata a cambiare direzione. Un primo allarme in questo senso è stato lanciato alle Scientific Sessions dell’American Heart Association che si sono tenute qualche settimana fa a Orlando, in Florida, quando Kamakki Banks, ricercatrice in cardiologia dell’Università del Texas, a Dallas, ha presentato il suo lavoro. Basandosi sui dati del National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES), un’indagine epidemiologica su scala nazionale e sponsorizzata dal governo che, dall’inizio degli anni sessanta, segue ogni anno, con visite e interviste, le condizioni di salute e le abitudini di vita della popolazione statunitense, gli esperti hanno scoperto che dopo anni di campagne a favore della salute, il rischio globale dell’americano medio di andare incontro a un infarto o a un ictus non è affatto cambiato.
L’INDAGINE - «Abbiamo preso in considerazione i fattori di rischio di quasi 6.700 adulti che hanno partecipato allo studio tra il 1988 e il 1994» spiega la ricercatrice, «e l’abbiamo confrontato con quelli di quasi 1.600 persone coinvolte nell’indagine nell’anno 2005-2006, il più recente di cui sono disponibili i dati». In particolare gli studiosi si sono concentrati su quattro elementi facilmente quantificabili: l’abitudine al fumo, la pressione arteriosa, i livelli di colesterolo e il tasso di zucchero, cioè la glicemia, nel sangue. Se l’individuo non aveva mai fumato e aveva pressione ed esami del sangue in ordine, era classificato come a basso rischio; se era fumatore oppure aveva anche solo uno dei valori fuori controllo era considerato ad alto rischio; se aveva fumato in passato oppure aveva uno degli esami ai limiti veniva definito borderline. Come dire, così così.
I RISULTATI - «Negli ultimi dieci anni il profilo globale di rischio non è cambiato» prosegue Kamakki Banks. «E’ aumentato il numero di chi non fuma e di chi ha il colesterolo sotto controllo, ma sono aumentati anche ipertesi e diabetici». Un risultato che avrebbe a che fare con l’aumento dell’indice di massa corporea medio della popolazione, il parametro ottenuto dividendo il peso in chili per il quadrato della statura in metri. Quindici anni fa era già 26,5, nel 2005 è arrivato a 28,8. «Un fenomeno che in diversa misura si ritrova anche al di qua dell’Atlantico » commenta Roberto Ferrari, presidente della Società europea di cardiologia, «e che paradossalmente non è segno di opulenza ma dell’impoverimento della popolazione. Anche in Italia i maggiori tassi di obesità si trovano nei paesini più poveri e nelle fasce culturalmente più basse. Spesso poi chi smette di fumare aumenta di peso, se non prende la decisione di lasciare l’ultima sigaretta a ragion veduta e con metodo».
LE CONSEGUENZE - Un studio condotto da ricercatori di Harvard e pubblicato sul New England Journal of Medicine estrapola le conseguenze di questo fenomeno. Se tutti gli adulti americani fossero normopeso e non fumassero, la sopravvivenza media di un diciottenne medio entro il 2020 potrebbe aumentare di oltre tre anni; siccome non è così, la previsione è invece che l’effetto dell’aumento dell’obesità prevarrà sul vantaggio dovuto all’abbandono del fumo, per cui l’aspettativa di vita si ridurrà di quasi un anno.
LE CONCLUSIONI - «È il progresso, bellezza!» verrebbe da dire parafrasando un famoso film. Sulla stessa strada si stanno infatti avviando anche Paesi come l’India: dove fino a dieci anni fa si moriva di fame, si cominciano a perdere sempre più anni di vita a causa del diabete o dell’infarto. «Mentre cercavamo di combattere le malattie abbiamo costruito un tipo di società che le alimenta» conclude amaramente il cardiologo italiano, che è anche direttore della Clinica cardiologica dell’Università di Ferrara. «Occorrono quindi delle contromisure, per esempio un’alleanza tra società scientifiche e industrie alimentari perché queste ultime migliorino le caratteristiche nutrizionali dei loro prodotti nella direzione suggerita dalle esigenze della prevenzione». Secondo l’esperto emiliano l’emergenza è tale che deve essere affrontata a livello legislativo: «Solo in questo modo si possono ottenere dei risultati, come ha dimostrato la legge anti fumo» dice. «Per questo la Società europea di cardiologia sta cercando di far approvare al Consiglio dei ministri europei un pacchetto di norme che vincoli tutti i paesi dell’Unione non solo a norme contro il fumo come quelle adottate per prima dall’Italia, ma che richieda a tutti gli Stati membri anche di prendere altre iniziative per la salute del cuore, come effettuare controlli regolari della pressione e del colesterolo a tutta la popolazione». Non si potrà certo imporre la salute per legge, ma gli Stati dovranno rendere conto all’Europa di quel che hanno fatto per convincere o costringere i loro cittadini a vivere meglio e di più.
Tratto da: Corriere della Sera Salute, Roberta Villa, 23 dicembre 2009