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Quel legame tra fibrosi cistica e celiachia

Un farmaco già in uso per la fibrosi cistica potrebbe aiutare i pazienti celiaci

La fibrosi cistica e la celiachia potrebbero essere strettamente legate a livello molecolare e un farmaco approvato per il trattamento della prima potrebbe rappresentare il punto di partenza per dare finalmente una cura ai pazienti celiaci.

È quanto emerge da una ricerca internazionale ma condotta in gran parte in Italia e pubblicata su The EMBO Journal.

La celiachia è una grave malattia autoimmune dell'intestino. Si verifica quando le persone sviluppano sensibilità al glutine, una sostanza presente nel grano, nella segale e nell'orzo. Compare in persone geneticamente predisposte, ma è scatenata da fattori ambientali. Quando le persone affette da celiachia mangiano glutine, il loro sistema immunitario innesca una risposta contro le cellule del loro stesso corpo, danneggiando la superficie mucosa dell'intestino tenue.

Circa 1 persona su 100 soffre di celiachia, ma la prevalenza è circa tre volte superiore nei pazienti che soffrono anche di fibrosi cistica.

«Questa co-occorrenza ci ha fatto intuire una connessione tra le due malattie a livello molecolare», ha detto il coordinatore della ricerca Luigi Maiuri, professore ordinario di Pediatria all'Università del Piemonte Orientale e ricercatore dell'Istituto Scientifico San Raffaele di Milano.

Così, i ricercatori ha cominciato a indagare le possibili connessioni profonde tra le due malattie.

Un gene in comune

La fibrosi cistica,  che è la più comune fra le malattie genetiche gravi, è caratterizzata dall'accumulo di muco spesso e viscoso nei polmoni e nell'intestino del paziente. A causarla è la mutazioni di un gene che regola il passaggio dei fluidi dall’interno all’esterno delle cellule che rivestono molti organi del nostro corpo: CFTR (Cystic Fibrosis Transmembrane Conductance Regulator). CFTR è una proteina per il trasporto di ioni e svolge un ruolo primario nel mantenimento della fluidità del muco: quando questo processo non funziona correttamente il muco diventa più viscoso, ristagna e predispone il paziente a infezioni respiratorie, infiammazione polmonare e insufficienza respiratoria. Inoltre, il malfunzionamento del gene CFTR innesca reazioni anche nell'intestino attraverso l'attivazione del sistema immunitario.

È su quest’ultima caratteristica, affine a quella che si verifica nei pazienti celiaci, che si sono concentrati i ricercatori scoprendo che la proteina CFTR gioca un ruolo di primo piano anche in questa patologia.

Utilizzando linee cellulari intestinali umane sensibili al glutine, i ricercatori hanno scoperto che uno specifico peptide della gliadina, il P31-43 (che è considerato il principale attore della risposta immunitaria anomala nella celiachia), si lega direttamente al CFTR e ne compromette la funzione.

Questa interazione scatena lo stress cellulare e l’infiammazione.

Verso lo sviluppo di nuovi farmaci

I ricercatori, però, hanno fatto un passo in più: hanno infatti scoperto che un farmaco impiegato nel trattamento dei pazienti con fibrosi cistica  (ivacaftor) è in grado di inibire l'interazione tra il peptide P31-43 e la proteina CFTR.

Infatti, quando cellule intestinali o campioni di tessuto prelevati da pazienti celiaci sono stati pre-incubati con ivacaftor prima di essere esposti a P31-43, il peptide non ha provocato una reazione immunitaria. Pertanto, il farmaco sembra proteggere le cellule epiteliali dagli effetti dannosi della gliadina. Inoltre, sembra proteggere i topi sensibili al glutine dalle manifestazioni intestinali indotte dalla ingestione di glutine.

«Non esiste ancora alcuna cura per la celiachia; allo stato attuale l'unica strategia terapeutica è quella di mantenere una rigorosa dieta priva di glutine», precisa Maiuri. «Tuttavia, lo studio attuale è un passo promettente verso lo sviluppo di un trattamento. Suggerisce che i potenziatori CFTR, che sono stati sviluppati per trattare la fibrosi cistica, possono anche essere esplorati come punto di partenza per lo sviluppo di un rimedio per la celiachia».

Tratto da: Healthdesk, 05 dicembre 2018