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Reportage dell'American Diabetes Association

Il congresso dell’American Diabetes Association (ADA), l’appuntamento sugli aggiornamenti in tema di diabete più importante dell’anno, come già accaduto per molti convegni si è tenuto in forma virtuale. Per dare modo a un pubblico più ampio di godere delle presentazioni salienti, un’iniziativa promossa da Novo Nordisk ha consentito di realizzare una serie di dibattiti tra importanti esponenti della diabetologia italiana per commentare le relazioni più importanti.

Questa prima sintesi, che ha fatto il punto su due simposi, si è avvalsa del prezioso contributo di Agostino Consoli, presidente eletto della Società Italiana Diabetologia e professore ordinario presso l'Università Gabriele D'annunzio di Chieti, Pescara e di Paolo Di Bartolo, presidente dell’Associazione Medici Diabetologi (AMD) e direttore della Rete Clinica di Diabetologia della ASL della Romagna.

Simposio “Doing better for diabetes and chronic kidney disease (CKD)”

La prevalenza del diabete sta aumentando in tutto il mondo e il numero delle persone a cui viene diagnosticato è in costante crescita. Un dato significativo riguarda la prevalenza della malattia renale diabetica (DKD, diabetic kidney disease), stabile nel 2017 rispetto al 1990 ma in aumento nelle donne rispetto agli uomini. Nel 2017 globalmente la prevalenza della DKD è stata di 16,5/1.000 nelle donne e di 15,5/1.000 negli uomini.

Il diabete è responsabile dell’insorgenza di più del 40% di nuovi casi di ESKD (end stage kidney disease), diventando quindi la causa principale di questa condizione, ricordando che la malattia renale cronica (CKD) è associata a mortalità cardiovascolare nei pazienti con diabete.

Importanza dello screening

Uno degli aspetti sottolineati è l’importanza della diagnosi precoce per l’identificazione della CKD in chi soffre di diabete. «Su questo tema c'è stata una grande call to action da parte dei relatori. Per prima cosa occorre cercare e identificare i pazienti diabetici con malattia renale, incrementando lo screening della funzionalità renale su questi soggetti» ha dichiarato Consoli.

L’ADA consensus conference raccomanda di eseguire almeno una volta all’anno l’esame dell’albuminuria urinaria, di valutare l’eGFR in tutti i pazienti con diabete di tipo 1 da più di 5 anni e in tutti quelli affetti da tipo 2, indipendentemente dal trattamento. Lo screening della nefropatia diabetica, unitamente a un intervento precoce e al controllo della glicemia, sono elementi fondamentali per ritardare la progressione della malattia. Oltre a questo è essenziale porre attenzione ai rischi cardiovascolari.

«In Italia siamo avanti rispetto agli Stati Uniti ma, anche se specialmente negli ultimi anni è diventata buona pratica clinica monitorare in maniera assidua sia il livello di funzionalità renale tramite il calcolo dell’EGFR che la microalbuminuria, possiamo fare meglio» ha continuato Consoli. «Sappiamo che perseguire un rigoroso controllo metabolico della malattia diabetica ha certamente un impatto importantissimo sulla complicanza microvascolare di cui la nefropatia fa parte e, dato che nella malattia renale diabetica confluiscono anche malattie di ordine aterosclerotico che colpiscono il rene, ritengo che la call to action riguardi anche l’importanza di usare tutti gli strumenti più moderni che abbiamo a disposizione, per poter instaurare un controllo metabolico che sia veramente efficace».

«Come emerso dal simposio, nel 2018 il 60% dei pazienti assistiti dalle diabetologie italiane non aveva una classica nefropatia diabetica, che si manifesta con la micro e macro albuminuria, che era invece presente circa nel 40% dei casi» ha commentato Di Bartolo. «I dati italiani mostrano come di fatto però la malattia renale diabetica non si presenti sempre solo con la micro albuminuria, ma un 10% dei nostri pazienti presenta un’iniziale compromissione del filtrato glomerulare senza averne alcun segno. Abbiamo poi una quota di circa il 20% di soggetti che presentano la classica microalbuminuria e un 4,5% che ha entrambe le condizioni».

Il controllo glicemico

Il controllo glicemico è fondamentale per determinare una riduzione delle complicanze microvascolari. Due studi hanno dimostrato che non solo è in grado di prevenire la comparsa di micro e macro albuminuria, ma anche di ridurre il progressivo deterioramento della funzione renale.

«Riguardo al controllo della glicemia l’intervento si è concentrato fondamentalmente su due interventi. Ovvero come misurare la qualità del controllo glicemico in una persona che ha una malattia renale e se affidarsi all’emoglobina glicata, piuttosto che alla fruttosamina o ad altri indicatori, come ad esempio l'albumina glicata. È stato chiarito che fino quando l'emoglobina glicata dovesse dimostrarsi in grado di fotografare la qualità del controllo glicemico, continua a essere lo standard di riferimento» ha detto Di Bartolo. «Nelle persone in trattamento con insulina o terapie che tendono ad aumentare il rischio di ipoglicemia, è stata riportata l'opportunità di fare ricorso all'autocontrollo glicemico convenzionale o anche al monitoraggio continuo della glicemia».

Sui target glicemici è stato stressato il fatto che quanti vivono con il diabete e hanno una qualche forma di malattia renale, si riconosce un grado di fragilità differente. Oltre a questo possono infatti presentare contemporaneamente malattie cardiovascolari, un’età superiore ai 75 anni, a volte sono in terapia ad alto rischio di ipoglicemia.

«In questi pazienti ci possiamo accontentare di una emoglobina glicata anche intorno all’8%. Se invece ci troviamo di fronte a un paziente che ha un’iniziale malattia renale, un'età più bassa, non esprime malattie cardiovascolari ma soprattutto è in terapia con farmaci più sicuri da un punto di vista del rischio di ipoglicemia o addirittura non la esprimono affatto, possiamo spingerci anche al 7% o anche meno, arrivando fino al 6,5%» ha chiarito Di Bartolo.

Simposio “Tailoring Treatment Options Based On Diabetes Comorbidities”

In merito alle complicanze cardiovascolari del diabete, ovvero la malattia aterosclerotica, l'ictus e lo scompenso cardiaco, i dati italiani mostrano che circa il 5% dei pazienti diabetici hanno avuto un ictus. Per i diabetici il rischio di ictus è 1,5-3 tre volte superiore a chi non ha il diabete e, una volta avuto un primo episodio, il rischio di avere una recidiva è di 1,5 volte superiore.

«Non stiamo parlando di rischi trascurabili, ma di un problema serio per chi vive con il diabete e che dobbiamo cercare di gestire al meglio, avviando un trattamento il più precocemente possibile, con azioni e terapie che puntino alla prevenzione» ha confermato Di Bartolo.

Call to action

Gli strumenti terapeutici al momento disponibili sono facili da utilizzare e gestire, oltre che molto graditi al paziente. È vero che gli analoghi del GLP-1 sono formulazioni iniettive, in attesa di quelle a somministrazione orale «ma un’iniezione sottocutanea alla settimana è estremamente comoda per qualunque paziente» ha fatto presente Consoli.

Anche con la classe degli SGLT2-inibitori si ottengono risultati importanti in termini di emoglobina glicata, peso corporeo, pressione arteriosa e assenza di ipoglicemia.

«La quota di utilizzo annuale di queste classi di farmaci nel 2020 è purtroppo minimale, quindi la nostra call to action deve essere proprio questa, compatibilmente ovviamente con un discorso di sostenibilità, ossia ricordare come non sia possibile che queste due classi di farmaci siano fra le meno utilizzate» ha rimarcato Di Bartolo.

«Dobbiamo fare anche un appello al sistema perché l'inerzia terapeutica è una condizione multifattoriale, ma alcuni elementi sono esterni al paziente e al clinico. Sono questioni istituzionali, quindi devono essere eliminati i piani terapeutici e tutte le condizioni che rendono difficile l'accesso alle cure. Bisogna verosimilmente allargare la prescrivibilità di terapie differenti in modo che questo consenta a una quota maggiore di pazienti di avere accesso alle migliori cure» ha concluso. 

Tratto da: Pharmastar, Davide Cavaleri, 17 giugno 2020