Ictus: prevenirlo e curarlo. Nell’ 80% dei casi il recupero è buono o totale
«L’infarto cerebrale» colpisce ogni anno 200 mila persone, ma le possibilità di intervenire rapidamente, e limitare i danni, sono aumentate grazie alle Stroke Unit.
Nel nostro Paese ogni anno 200 mila persone vengono colpite da ictus (di cui 40 mila per la seconda o terza volta): come dire un cittadino italiano ogni due minuti e mezzo. È una cifra impressionante, soprattutto se si pensa che oltre a essere la causa del 10-12% di tutti i decessi, porta a invalidità, più o meno grave, nella maggior parte delle persone che superano la crisi. Si può affrontare questo killer solo se si è estremamente rapidi. Riconoscendolo subito e raggiungendo una Stroke Unit, cioè un centro ospedaliero specializzato, senza perdere un secondo, perché le cure hanno i migliori risultati entro un’ora e mezzo dall’ictus e, comunque, non oltre le quattro ore e mezzo. Per questo è necessario che di fronte a un ictus tutti sappiano come ravvisarne i sintomi e come comportarsi: è l’obbiettivo principale della campagna Stop all’Ictus promossa dai Rotary di Pavia e dai 41 Stroke Unit della Lombardia, che nei prossimi mesi ha in programma una serie di iniziative informative e preventive (sul sito stopallictus.it). Stop all’Ictus ha esordito con il convegno «Curare e prendersi cura» a Milano al palazzo della Regione Lombardia, il 23 gennaio, dove è stato fatto il punto su questa patologia.
I fattori di rischio
Molti i progressi fatti negli ultimi anni, ma anche se le Stroke Unit sono sempre più numerose e abbiamo sofisticati sistemi diagnostici e ottime terapie per affrontare questo infarto cerebrale — facendo di nuovo affluire sangue nelle zone del cervello colpite — l’ictus resta una patologia grave. Meglio, dunque, cercare di prevenirlo nella consapevolezza dei fattori di rischio, — sovrappeso, sedentarietà, fumo, troppo alcol e, soprattutto, ipertensione — ricordando che l’ictus, pur avendo come bersaglio preferenziale gli anziani, colpisce anche persone giovani: oggi il 10-15% dei casi ha meno di 45 anni. «A tutte le età, ma soprattutto per i giovani, aumentare del 10-20% la quota di attività fisica quotidiana riduce del 33% il rischio di un peggioramento della “sindrome metabolica’”: diabete, obesità, ipercolesterolemia e ipertensione, che predispone al rischio di ictus nel tempo — spiega Giuseppe Micieli, responsabile della Neurologia d’Urgenza dell’Istituto neurologico Mondino di Pavia e organizzatore del convegno.
Le conseguenze
Una volta che l’ictus (che significa “colpo” in latino) colpisce, il problema però non è soltanto superare l’urgenza. Perché anche quando viene trattato nel migliore dei modi, e superato, lascia conseguenze: «Che sono gravissime nel 20% dei pazienti, medio-gravi nel 50-60% e lievi nei restanti casi — dice Bruno Bernardini, responsabile della Neuroriabilitazione dell’Humanitas di Milano. Per capirsi: i casi gravissimi sono quelli in cui si perde la capacità di muoversi, di parlare e spesso anche altre funzioni. Nei casi medio gravi queste stesse funzioni si perdono solo in parte. Nei casi lievi si ha qualche danno neurologico, ma non funzionale.
La riabilitazione
Cosa si può sperare dalla riabilitazione? Chi è stato colpito in modo gravissimo purtroppo spesso non può recuperare nulla, ma chi ha avuto un ictus di entità medio-grave ha prospettive decisamente migliori: oltre metà di chi è costretto sulla sedia a rotelle (che non è la totalità di chi ha subito un “colpo” di questo tipo) torna a camminare, riprende a parlare e ritorna in buona misura autonomo. Se l’icuts è stato classificato come lieve, il recupero è praticamente pieno. «Tranne che in questi ultimi casi, in tutti gli altri, solitamente, i pazienti trascorrono due mesi in strutture come la nostra — chiarisce Bernardini. — Passato questo periodo, le persone colpite in maniera gravissima vanno in altre strutture riabilitative non intensive a tempo indeterminato. Invece il 70% delle persone in situazione di gravità medio-grave ha la prospettiva di altri due o quattro mesi di riabilitazione a domicilio, o in ambulatorio o in day hospital».
I fattori psicologici
Insomma nella maggioranza dei casi il recupero è possibile anche se lungo e faticoso. «Proprio il trattamento dei casi medio gravi, in cui i risultati della riabilitazione sono promettenti, costituisce la prossima frontiera — sottolinea Bernardini. — Bisogna preoccuparsi anche di stimolare questi pazienti a muoversi, a uscire, per evitare che la sedentarietà e la solitudine rallentino il recupero, anche dal punto di vista psicologico. Ci apprestiamo a varare, sulla base di esperimenti già fatti altrove, programmi di trattamento non fisioterapico classico ma condotto in una palestra “normale” con l’unico accorgimento di usare personale appositamente formato. Un ritorno alla normalità non solo motoria ma anche psicologica, una forma di reinserimento”.
Tratto da: Corriere della Sera Salute, Daniele Razzoli, 01 febbraio 2016