«L’obesità è una malattia potenzialmente mortale, riduce l’aspettativa di vita di dieci anni, è causa di disagio sociale e spesso, tra bambini e adolescenti, favorisce episodi di bullismo, che più volte le cronache hanno riportato. Eppure, l’Italia e l’Europa, sino ad oggi, hanno guardato altrove». È quanto ha denunciato Paolo Sbraccia, presidente della Società italiana dell’obesità (Sio), in occasione della presentazione della Giornata europea dell’obesità (21 maggio), convinto sia giunto il momento di considerare l'obesità una malattia cronica.
Sbraccia invita infatti i politici italiani a sottoscrivere la proposta di un gruppo di parlamentari europei: una “dichiarazione scritta” che invita la Commissione europea e il Consiglio d’Europa «ad agire in vista di un riconoscimento armonizzato, a livello europeo, dell'obesità come malattia cronica».
«Si stima che l’obesità colpirà, entro il 2030, il 50 per cento dei cittadini europei e in molti Paesi, tra persone obese e sovrappeso, si raggiungerà il 90 per cento della popolazione - ha detto Sbraccia - Già oggi, come ricordano i proponenti il documento al Parlamento europeo, il costo economico e sociale dell’obesità è pari a 70 miliardi di euro nell’Unione, tra costi sanitari e mancata produttività, quasi 200 milioni di euro al giorno, che hanno un impatto notevole e assolutamente sottovalutato sui sistemi sanitari».
Il problema riguarda anche il nostro Paese. «Per la prima volta nella storia di questo Paese - ha ricordato Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto superiore di sanità - il Rapporto Osservasalute riscontra come l'aspettativa di vita degli italiani sia diminuita rispetto al passato: per gli uomini è stata di 80,1 anni nel 2015 rispetto agli 80,3 dell’anno precedente; analogo trend per le donne, con 84,7 anni contro 85,0. La colpa sta nella scarsa propensione degli Italiani alla prevenzione e nella poca attenzione verso uno stile di vita adeguato a ridurre il rischio delle malattie croniche non trasmissibili come obesità, diabete e disturbi cardiovascolari».
Tratto da: Healthdesk, 20 maggio 2016