Una recente ricerca ha dimostrato come un programma cellulare che provoca l'invecchiamento può anche portare benefici inaspettati in termini di funzione delle betacellule pancreatiche e di produzione di insulina nei topi e nell'uomo. Lo studio, i cui risultati sono riportati su “Nature medicine”, è stato condotto da Ronny Helman dell'Università Ebraica di Gerusalemme, in collaborazione con scienziati canadesi e statunitensi. I ricercatori hanno esaminato l'attività del gene p16Ink4a, noto per attivare un programma di senescenza nelle cellule che, impedendo a queste ultime di dividersi, è importante nella prevenzione del cancro. La limitazione del potenziale di dividersi, nel caso delle betacellule, è vista come un effetto negativo, dal momento che la loro perdita, in caso di iperglicemia, potrebbe contribuire all'insorgenza di diabete. In realtà, i ricercatori hanno scoperto che durante l'invecchiamento normale l'espressione di p16Ink4a e la senescenza cellulare migliorano la funzione primaria delle betacellule ovvero la secrezione di insulina dopo stimolazione glucidica. I ricercatori hanno inoltre scoperto che l'attivazione di p16Ink4a, in topi con diabete, aumenta la secrezione di insulina, tanto da far regredire parzialmente la malattia e migliorare la salute dei topi. Esperimenti simili, condotti in cellule umane, suggeriscono fortemente che la valorizzazione della senescenza indotta della secrezione di insulina è comune tra i topi e gli esseri umani, e vedono il gene p16Ink4a come principale motore in entrambi gli organismi. «Questo tipo di ricerca è particolarmente interessante perché va ad agganciarsi a un dato di tipo clinico ed epidemiologico, che mette in evidenza come i centenari, individui particolari da molti punti di vista, sono persone in cui sono praticamente assenti i classici fattori di rischio cardiovascolare tra cui il diabete, solitamente molto frequente nell'anziano» commenta Giuseppe Paolisso, docente di Geriatria e Rettore della Seconda Università di Napoli. «Ciò si abbina bene a questo studio, che dimostra come l'attivazione del gene p16Ink4a potenzia l'effetto della betacellula nell'invecchiamento e favorisce l'aumento della secrezione insulinica». Che cosa si può ricavare da questa scoperta? «A mio parere, la riflessione da fare è che la genetica dice una parte, ma non dice il tutto» risponde Paolisso. «Se poi alla genetica aggiungiamo un corretto o uno scorretto stile di vita (dieta, esercizio fisico, moderazione con alcol) tutto questo si associa meglio a una vita più lunga e più sana. Al contrario, la presenza di obesità, una dieta scorretta, la sedentarietà e magari il fumo possono invece in qualche modo 'annebbiare' l'effetto del gene p16Ink4a. Siccome la seconda eventualità è quella purtroppo più comune dal punto di vista della popolazione generale, ci dobbiamo confrontare quotidianamente con il fatto che, a fronte di quello che può essere un dato genetico, c'è poi un dato epidemiologico apparentemente contrastante, ovvero l'aumento della prevalenza del diabete che, nei soggetti anziani, può raggiungere anche il 25% della popolazione». Anche se forse è superfluo, occorre sottolineare che non si sta parlando di una mutazione. «È un gene presente in tutti e in alcuni può essere più attivato, in altri di meno» puntualizza Paolisso. «Il problema è che al gene si associa l'epigenetica, cioè tutta una serie di modificazioni cellulari che in qualche modo sono legate al gene, ma non ne sono strettamente dipendenti. Quindi avere un gene più attivato non vuol dire avere un risultato scontato, per quanto riguarda l'espressione del gene stesso. Non è come nel caso delle malattie rare: un gene, una malattia. Qui si parla di geni che possono interagire con altri geni, i quali possono avere modificazioni cellulari. Si tratta, cioè, di un meccanismo molto più complesso e con molte più variabili: non è un assioma così semplice». Dunque non ci sono ricadute cliniche? «Il dato è di indubbio interesse, ma non è possibile al momento fare alcun tipo di speculazione, né farmacologica né terapeutica, perché non abbiamo i dati per capire come questo gene riesce a interagire con l'ambiente, laddove l'ambiente potrebbe essere molto più forte del gene».
Tratto da: Diabetologia33, 08 aprile 2016