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Alzheimer: perché i grandi trial con semaglutide non hanno funzionato (ma restano importanti)

I risultati completi dei trial di fase 3 EVOKE ed EVOKE+ hanno chiuso – almeno per ora – una delle piste più discusse degli ultimi anni: l’uso di semaglutide, agonista del recettore GLP-1 noto per diabete e obesità, come potenziale terapia per la malattia di Alzheimer (AD) nelle fasi iniziali.

Anticipati un paio di settimane fa ma presentati in forma completa al congresso CTAD 2025 di San Diego, i dati mostrano in modo chiaro che il farmaco non è riuscito a rallentare la progressione clinica della malattia, nonostante segnali biologici interessanti su infiammazione e biomarcatori di neurodegenerazione. Una delusione annunciata ma che lascia al campo – paradossalmente – molto materiale da cui ripartire.

L’interesse verso i GLP-1 agonisti in neurologia nasce da una convergenza di evidenze: dati preclinici che suggerivano effetti neuroprotettivi, anti-infiammatori e modulatori del metabolismo cerebrale; analisi post hoc di grandi trial cardiovascolari, in cui il trattamento con semaglutide sembrava associarsi a una riduzione del rischio di diagnosi di Alzheimer rispetto ad altri antidiabetici, compresi altri GLP-1 RA; studi su cartelle cliniche elettroniche di oltre un milione di pazienti con diabete tipo 2, in cui semaglutide risultava collegato a una riduzione del rischio di AD del 40–70% rispetto a insulina e ad altri GLP-1.

Su queste premesse, Novo Nordisk aveva deciso di spingere fino alla fase 3 due trial gemelli – EVOKE ed EVOKE+ – disegnati per testare se il farmaco potesse rallentare il declino cognitivo in pazienti con Alzheimer in fase prodromica o lieve.

EVOKE ed EVOKE+: chi è stato arruolato e cosa si è misurato

I trial EVOKE ed EVOKE+ rappresentano, insieme, il più ampio programma mai realizzato per valutare un agonista del recettore GLP-1 nella malattia di Alzheimer. Complessivamente hanno coinvolto 3.808 partecipanti, adulti tra i 55 e gli 85 anni, suddivisi in 1.855 pazienti per EVOKE e 1.953 per EVOKE+. Tutti i soggetti arruolati si trovavano nello stadio iniziale della malattia: presentavano infatti un mild cognitive impairment (MCI) dovuto ad Alzheimer o una demenza lieve, con positività all’amiloide documentata e un punteggio CDR-Global pari a 0,5, indicatore tipico delle fasi molto precoci del disturbo neurodegenerativo. Durante lo studio, ai pazienti era permesso continuare – o eventualmente iniziare – terapie già approvate per l’Alzheimer, incluse le più recenti terapie anti-amiloide, purché fossero in condizioni clinicamente stabili.

Il trattamento sperimentale prevedeva l’assegnazione casuale a semaglutide orale 14 mg al giorno oppure a placebo. Dopo un periodo iniziale di titolazione di otto settimane, i partecipanti proseguivano con 104 settimane di terapia, l’equivalente di due anni di trattamento continuativo. Una fase di estensione di ulteriori 52 settimane era stata programmata, ma è stata poi interrotta alla luce dei risultati di efficacia non favorevoli.

L’obiettivo principale dei due studi era verificare se semaglutide fosse in grado di rallentare il peggioramento clinico misurato attraverso il CDR-Sum of Boxes (CDR-SB), un indice che combina aspetti cognitivi e funzionali della malattia. Accanto a questo endpoint primario, i ricercatori hanno valutato anche diversi outcome secondari: il declino nelle attività quotidiane tramite la scala ADCS-ADL-MCI, le performance cognitive attraverso strumenti come ADAS-Cog13, MoCA, MMSE e ADCOMS, il tempo di progressione da MCI a demenza, e un vasto insieme di biomarcatori ottenuti da liquor, sangue, imaging RM e indicatori infiammatori. Questo approccio multimodale ha permesso di ottenere un quadro dettagliato non solo della clinica, ma anche dei potenziali effetti biologici del trattamento.

Risultati di efficacia: nessuna differenza clinica rispetto al placebo

Il dato centrale è netto: semaglutide non ha rallentato la progressione clinica dell’Alzheimer rispetto al placebo.

• In EVOKE, la variazione media del CDR-SB a 104 settimane è stata identica:

o 2,2 punti nel gruppo semaglutide

o 2,2 punti nel gruppo placebo

con una differenza stimata di –0,06 (IC 95% –0,48 a 0,36; p=0,77).

• In EVOKE+, che includeva pazienti con maggiore componente vascolare, la differenza è stata ugualmente non significativa:

o 2,1 punti vs 2,0 punti

(differenza 0,15; IC 95% –0,24 a 0,54; p=0,46).

Lo stesso pattern si è visto su tutti i principali endpoint secondari:

• ADCS-ADL-MCI: nessuna differenza sostanziale fra i gruppi, con declino funzionale sovrapponibile;

• score cognitivi (MoCA, ADAS-Cog13, MMSE, ADCOMS): nessun segnale coerente di beneficio.

Anche l’analisi sul tempo di progressione da MCI a demenza, aggregando i dati dei due trial, è stata negativa: HR 0,96 (IC 95% 0,86–1,06) per semaglutide vs placebo: in pratica, nessun effetto.

Biomarcatori: un segnale biologico che però non arriva al letto del paziente

La parte più intrigante dei risultati viene dalla sottocoorte biomarker, con 199 pazienti (98 con semaglutide, 101 placebo). Qui, semaglutide ha mostrato riduzioni nominalmente significative, dell’ordine del 10%, di diversi biomarcatori nel liquor:

• pTau181 (rapporto di trattamento ~0,92)

• pTau217 (~0,91)

• vari cluster di fosfo-tau neuronale (npT181, npTau205)

• marcatori di neurodegenerazione (total tau ~0,93; neurogranin ~0,92)

• marker di neuroinfiammazione (YKL-40 ~0,93)

Parallelamente, però:

• nei biomarcatori plasmatici si è osservato un aumento di ~5% di neurofilament light (NfL) in EVOKE+ e un aumento di ~4% di GFAP in entrambi i trial;

• si è registrata una netta riduzione della hs-CRP, intorno al 24–29%, segno di un effetto anti-infiammatorio sistemico coerente con il profilo metabolico del farmaco.

È il classico scenario di “dissociazione clinico-biomarker”: alcuni indicatori biologici sembrano muoversi nella direzione desiderata, ma il paziente non ne trae un beneficio clinicamente misurabile in termini di memoria, autonomia o velocità di declino.

Sicurezza e tollerabilità: profilo coerente con il “semaglutide che già conosciamo”

Dal punto di vista della sicurezza, nessuna sorpresa: il profilo di semaglutide nei due trial è stato molto simile a quello osservato in diabete e obesità.

Nei dati aggregati EVOKE + EVOKE+: eventi avversi in circa il 91% dei pazienti trattati vs 85% con placebo; nessuna differenza rilevante in eventi avversi gravi (20,4% vs 23,8%) o severi (12,1% vs 13,2%).

Gli eventi più frequenti con semaglutide: calo ponderale (36,5%), riduzione dell’appetito (33,1%), nausea (24,3%), diarrea (14,5%), vomito (12,3%), infezioni da COVID-19 (10,9%)

Tutti per lo più lievi o moderati e in linea con la classe GLP-1.

Sul fronte peso corporeo, l’effetto è stato quello atteso:

• –5,8% a 104 settimane nel gruppo semaglutide (–4,3 kg in media)

• +0,6% nel gruppo placebo (+0,2 kg).

Nei partecipanti con BMI >30, il calo medio ha sfiorato il –8,6%, confermando che il farmaco “fa quello che deve fare” sul piano metabolico.

Perché non ha funzionato? Alcune possibili spiegazioni

Di fronte a un risultato negativo così pulito, la domanda è inevitabile: il “filone metabolico” nell’Alzheimer è da archiviare? Probabilmente no, ma va ridimensionato e ripensato.

Alcune ipotesi di interpretazione:

1. Stadio troppo avanzato della malattia

EVOKE ed EVOKE+ hanno arruolato pazienti già sintomatici (MCI o demenza lieve). Se il contributo del metabolismo glucidico, dell’insulino-resistenza cerebrale e dell’infiammazione sistemica è più rilevante nella fase preclinica, una volta consolidata la cascata amiloide-tau, intervenire potrebbe essere semplicemente “troppo tardi”.

2. Dose, via di somministrazione e penetrazione cerebrale

La dose orale di 14 mg/die è quella già usata per altre indicazioni, ma non è detto che sia ottimale per ottenere un effetto centrale sul cervello. L’esposizione cerebrale reale potrebbe non essere sufficiente per tradurre i segnali biomolecolari in un beneficio clinico.

3. Alzheimer come malattia multifattoriale

Anche se il semaglutide corregge alcuni parametri metabolici e infiammatori, la malattia di Alzheimer nelle fasi sintomatiche è già dominata da patologia tau, sinaptica e neurodegenerativa avanzata. Un singolo bersaglio potrebbe essere semplicemente troppo poco.

4. Target giusto, contesto sbagliato

Le analisi su grandi coorti diabetiche suggeriscono che i GLP-1 siano più promettenti come strategie di prevenzione o comunque di riduzione del rischio in popolazioni ad alto rischio vascolare/metabolico, più che come terapia modificante la malattia a diagnosi già avvenuta.

Non sorprende, quindi, che alcuni esperti – come Howard Fillit (ADDF) – insistano sul valore “positivo” di questi risultati negativi: come è accaduto con i primi anti-amiloide falliti, proprio questi insuccessi aiutano a raffinare le ipotesi, i disegni di studio e i timing di intervento.

Cosa succede ora: estensioni fermate, ma la strada non è chiusa

Alla luce dei dati presentati al CTAD, Novo Nordisk ha deciso di interrompere la fase di estensione a un anno dei trial. Restano però aperte due linee di lavoro:

• l’analisi di dettaglio della sottocoorte biomarker, che potrà fornire informazioni sui meccanismi cerebrali modulati dal GLP-1, utili per future combinazioni terapeutiche;

• l’ipotesi – tutta da testare – di usare i GLP-1 come prevenzione in soggetti a rischio elevato (per esempio con diabete tipo 2, obesità, APOE4, o imaging amiloide positivo ma ancora cognitivamente normali).

Nel frattempo, la pipeline Alzheimer si sta spostando rapidamente verso target non amiloide – oltre il 70% dei programmi in sviluppo avanzato – aprendo la strada a un modello più vicino a quello oncologico: trattamenti combinati, modulazione di pathway multipli, approcci di medicina di precisione.

Un messaggio per la ricerca (e per la clinica)

Dal punto di vista del clinico, il messaggio immediato è chiaro: semaglutide non è oggi una terapia modificante la malattia per l’Alzheimer precoce, e non esistono dati per supportarne l’uso in questa indicazione al di fuori di trial.

Dal punto di vista della ricerca, EVOKE ed EVOKE+ entrano però a pieno titolo nella storia della farmacologia dell’AD:

• perché mostrano in modo esemplare come un’ipotesi forte, supportata da dati osservazionali e meccanicistici, possa non reggere alla prova del trial randomizzato;

• perché dimostrano la fattibilità di grandi studi biomarker-rich su target non amiloide;

• perché forniscono una base concreta su cui progettare i prossimi tentativi, magari più precoci, più personalizzati e in combinazione con altri meccanismi.

Come ha ricordato Fillit, è così che si sono evolute le strategie nel cancro: una serie di trial, molti negativi, che però, letti insieme, hanno costruito l’architettura delle terapie di oggi. L’auspicio è che l’Alzheimer stia imboccando, faticosamente, la stessa strada.

E semaglutide, pur uscito di scena come malattia-modificante in fase sintomatica, potrebbe ancora avere un ruolo diverso – magari all’inizio del percorso, quando il cervello è ancora abbastanza “plastico” da rispondere al metabolismo che cambia.

Referenza bibliografica

Cummings J, Johannsen P, Atri A, et al. EVOKE and EVOKE+: Two phase 3 randomised placebo-controlled trials of semaglutide in participants with early-stage Alzheimer’s disease (NCT04777396 and NCT04777409). Presented at: 2025 CTAD Conference; December 1-4; San Diego, CA.

Tratto da: Pharmastar, 08 dicembre 2025