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Monitoraggio a distanza per vincere sul tempo lo scompenso cardiaco

Un algoritmo che valuta i dati provenienti dai device di stimolazione cardiaca impiantabili è in grado di predire con un mese e mezzo d’anticipo il peggioramento delle condizioni cliniche dei pazienti consentendo di intervenire precocemente.

Il dispositivo cardiaco impiantato rileva i parametri, li invia a una centrale operativa dove un software li analizza e trasforma i dati grezzi in informazioni cliniche rilevanti. Queste vengono poi inviate al centro clinico dove è stato impiantato il device, valutate da un operatore sanitario che decide le migliori misure da mettere in atto per il paziente.

Tutto ciò non è una novità in cardiologia, una delle discipline che più ha colto le opportunità della telemedicina negli ultimi anni.

Nelle scorse settimane, su EP Europace, rivista ufficiale della European Heart Rhythm Association (EHRA) è stato pubblicato un lavoro scientifico che ha validato un nuovo algoritmo in grado non solo di elaborare i dati provenienti dai dispositivi impiantabili, ma anche di indicare con un grande anticipo un aggravamento delle condizioni cliniche, consentendo ai medici di mettere in atto interventi precoci.

Lo studio che ha messo a punto e validato il nuovo algoritmo è stato denominato “Selene HF Study” ed è stato promosso dall’azienda tedesca Biotronik.

«Condotta in gran parte in Italia, la ricerca nasce da un’esigenza: cercare di prevenire le ospedalizzazioni dei pazienti con scompenso cardiaco» dice il primo firmatario dello studio, Antonio D’Onofrio, direttore dell'unità di Elettrofisiologia e stimolazione cardiaca all’ospedale Monaldi di Napoli. «I ricoveri sono un indice di aggravamento della patologia cardiaca che si traduce in un grande aumento del rischio di morte. Sono inoltre una fonte di costo per il servizio sanitario non solo italiano ma di tutti i paesi industrializzati dovuto alle frequenti ospedalizzazioni».

Disporre di informazioni in grado di anticipare questa evenienza è perciò di grande importanza.

In anticipo di 42 giorni

La ricerca è stata condotta su 918 pazienti con scompenso cardiaco portatori di un defibrillatore cardiaco impiantabile o di un defibrillatore dotato di resincronizzazione cardiaca. Il defibrillatore monitorizza una serie di parametri e di questi sono stati individuati solo sette, che più di tutti si correlavano con l’evento ospedalizzazione come la frequenza cardiaca delle 24 ore, la frequenza cardiaca a riposo, le aritmie atriali e ventricolari, l’attività fisica del paziente, l’impedenza toracica, che indica l’accumulo di liquidi nei polmoni e l’Heart rate variability. L’algoritmo, in modo automatico, integra l’andamento nel tempo dei sette parametri con il Seattle Heart Failure Model (SHFM) che è un modello predittivo di sopravvivenza in pazienti con scompenso cardiaco.

«Lo studio ha confermato che l’analisi combinata di questi sette parametri e del SHFM è in grado di prevedere i due terzi dei primi ricoveri per scompenso cardiaco con un tempo medio di allarme di 42 giorni. Inoltre, l’algoritmo ha dimostrato un tasso di “falsi allarmi” bassissimo, pari a 0,7 allarmi per paziente ogni anno», spiega D’Onofrio.

L’utilità pratica di uno strumento di questo tipo è immediata: «Di fronte a un allarme, il paziente viene contattato», dice ancora il cardiologo. «E ciò avviene in un momento in cui il malato ha pochi o nessun sintomo».

Se per qualcuno può essere necessaria una visita immediata in ambulatorio, per altri si può intervenire a distanza. «Per esempio, può capitare che il peggioramento sia semplicemente dovuto al fatto che il paziente ha deliberatamente sospeso la terapia o ha ridotto le dosi di uno o più farmaci. In questo caso un intervento minimo può cambiare radicalmente la prognosi del paziente», precisa D’Onofrio.

Intervenire d’anticipo non ha però solo l’immediato beneficio di prevenire il ricovero, come mostrato dallo studio Selene HF.

«Ogni volta che un paziente con scompenso va incontro a un’instabilizzazione clinica, lo stadio al quale si ritorna tende a essere prognosticamente peggiore di quello precedente. Intervenire prima prevenendo il peggioramento è quindi un modo per attenuare i rischi di progressione della malattia», dice Gianfranco Sinagra, direttore della struttura complessa di Cardiologia e dipartimento cardiotoracovascolare, dell’Azienda sanitaria universitaria di Trieste.

Dal paziente all’organizzazione

Intanto, la disponibilità di questo tipo di dispositivi sta sortendo effetti che vanno ben oltre la salute del paziente.

«I dati provenienti dai device non possono giacere inosservati. Così le organizzazioni sanitarie si sono dovute dare modalità organizzative per monitorare l’informazione, fare una prima valutazione clinica, allestire una risposta adeguata che può andare dal contatto telefonico, alle indicazioni terapeutiche di primo livello, fino alla pianificazione di una visita supplementare», continua Sinagra. «In sostanza, il dato ha bisogno di essere metabolizzato per poter avere valenza operativa e dare benefici al paziente».

I malati, dal canto loro, sembrano apprezzare.

«Il paziente sente che il dispositivo non è solo un angelo custode per cogliere e trattare aritmie cattive, ma uno strumento di gestione clinica della sua situazione. E vede in maniera favorevole questa forma di monitoraggio dal centro cardiologico», dice Sinagra che, tuttavia, avverte: «In questo circuito che vede il paziente e il centro cardiologico collegati da un filo diretto, occorre fare attenzione a non escludere il medico di famiglia. È necessario trovare soluzioni che coinvolgano e non escludano tutti gli attori di cura».

Tratto da: Healthdesk, 21 ottobre 2021