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Sindrome X - Un'epidemia in incognita

Non è stato un caso che la medicina abbia scoperto un'insidiosa triade: il diabete non insulino-dipendente, l'obesità, e le malattie cardiovascolari si presentano spesso a braccetto, invitando i ricercatori a caccia di prove di un loro legame sotterraneo.
È quindi da circa un decennio che, osservando la frequenza di queste malattie nelle popolazioni occidentali, è stato coniato il termine di “sindrome X”, che sta ad indicare l'incognita di questa misteriosa associazione. Qualcuno ha parlato di malattia “della civilizzazione”, per sottolineare il nesso esistente tra il problema medico e lo stile di vita occidentale.
Il diabete mellito di tipo 2, che rappresenta il 95% dei casi di diabete, è una malattia più frequente nell'adulto e spesso si accompagna ad una situazione di eccessiva alimentazione ed obesità. Uno dei marcatori biochimici di questa condizione patologica è l'insulino-resistenza, cioè la perdita di efficacia dell'insulina sulle sue cellule bersaglio. L'ormone c'è (a differenza del diabete mellito tipo 1 in cui è praticamente assente) ma non fa sentire in maniera adeguata i suoi effetti. Vediamo ora più in dettaglio il meccanismo di azione dell'insulina, per capire meglio i problemi che possono derivare dalla sua inefficacia.
Il meccanismo dell’azione insulinica
Dopo i pasti si verifica una situazione di accumulo di risorse energetiche: nel sangue circolante il glucosio è più elevato, assieme ad altre sostanze importanti come gli aminoacidi (provenienti dalle proteine) e gli acidi grassi (provenienti dai lipidi). A questo punto è necessario che l'organismo utilizzi o immagazzini queste risorse nelle sue cellule: ed ecco che interviene l'insulina, che è un pò il mediatore “centrale” di questa funzione nutrizionale.
In parole semplici, il livello dell'insulina nel sangue si innalza e segnala all'organismo che c'è un eccesso di risorse disponibili. L'insulina si lega a dei recettori sulla superficie delle cellule, che sono come dei “campanelli” che avvisano l'interno della cellula che sono disponibili glucosio ed altre molecole. A questo punto la cellula, attraverso tutta una serie di segnali, apre delle speciali “porte” che permettono l'ingresso del glucosio, abbassandone quindi il livello nel sangue circolante (è questo l'effetto ipoglicemizzante dell'insulina).
Com'è intuibile, se questo meccanismo si inceppa in qualcuno dei suoi ingranaggi (il recettore oppure i segnali all'interno della cellula) viene a mancare l'effetto fisiologico: si verifica quindi l'insulino-resistenza delle cellule stesse, e nel sangue la glicemia si mantiene elevata (iperglicemia). L'organismo, nel tentativo di compensare la situazione, cerca di aumentare la quantità di insulina per assicurarne l'effetto sulle cellule.
Insulino-resistenza e il possibile aumento dell'insulina circolante (iper-insulinemia) sono quindi gli effetti caratteristici di questo malfunzionamento a livello biochimico.
L'obesità e l'ipertensione (elevata pressione arteriosa) sono fattori che si accompagnano spesso il fenomeno dell'insulino-resistenza, e quest'ultima può rappresentare la strada che conduce verso il diabete conclamato. Inoltre, questi fattori manifestano una chiara associazione con le malattie cardiovascolari, come la cardiopatia ischemica (angina, infarto miocardico) e le vasculopatie cerebrali (attacchi ischemici, ictus), che nei paesi industrializzati dell'occidente rappresentano la prima causa di morte.
Questo insieme di sintomi clinici ha ricevuto la denominazione di sindrome “X”, che vuole rappresentare appunto il riconoscimento di un possibile legame di parentela tra queste diverse malattie. Per quanto il problema sia complesso, chiamando in causa sia fattori genetici, cioè “costituzionali” dell'individuo, sia fattori ambientali come l'eccessiva e squilibrata alimentazione, sono state identificate diverse anomalie alla base dell'insulino-resistenza, il fenomeno che sembra essere il filo conduttore delle alterazioni nella sindrome X: l'attenzione della ricerca è focalizzata sulle anomalie del segnale dell'insulina sui recettori, e dell'attivazione della cellula in risposta a questo segnale. I diversi passaggi “inceppati” che sono stati identificati dai ricercatori potranno diventare il bersaglio di nuovi e mirati farmaci, che raggiungano lo scopo di sbloccare proprio quei meccanismi e riportare quindi il metabolismo delle cellule verso la normalità.
Il metabolismo pigro
È interessante l'ipotesi avanzata dalla biologia evolutiva per spiegare l'elevata frequenza di obesità e diabete di tipo 2 nel mondo moderno.
Se è vero che i fenomeni biochimici alla base dei meccanismi della resistenza insulinica e del diabete hanno una base genetica, ci si poteva chiedere come mai l'evoluzione, secondo i suoi inflessibili meccanismi della selezione naturale, non avesse eliminato o ridotto fortemente queste caratteristiche genetiche sfavorevoli.
La spiegazione possibile, sicuramente plausibile e sostenuta da molte osservazioni epidemiologiche, potrebbe risiedere in un concetto molto semplice: le caratteristiche che conferivano agli individui un basso metabolismo, con la tendenza ad accumulare grasso corporeo (favorita dai più elevati livelli di insulina, tipica nell'insulino-resistenza), sarebbero state vantaggiose in quello che era il mondo pre-agricolo prima e pre-industrializzato poi, caratterizzato sempre da periodi di carestia alimentare e periodi di relativa abbondanza. Il tratto genetico tendeva quindi a mantenersi nella popolazione perché non rappresentava, in quei tempi magri, un problema: era semmai una specie di tratto “protettivo” nei periodi di insufficiente alimentazione. Quando poi le risorse alimentari sono diventate, almeno per una parte della popolazione umana, abbondanti sino all'eccesso, questa caratteristica biochimica è diventata dannosa, favorendo l'obesità e le malattie cardiovascolari: ed è ciò che in effetti stiamo osservando al giorno d'oggi.
Vi sono diversi esempi che possono avvalorare questa ipotesi: fino a 40-50 anni fa in molte popolazioni il diabete era praticamente sconosciuto, prima che si verificassero le trasformazioni delle loro abitudini alimentari: negli Indiani del Nord-America, negli Eschimesi, in altri gruppi umani di isole del Pacifico, ad esempio. Le modificazioni alimentari hanno invece reso queste popolazioni soggette ad un alta incidenza di diabete, e per alcune di esse questa malattia viene adesso a rappresentare una delle principali cause di mortalità. In Boscimani dell'Africa, per citare un altro interessante studio epidemiologico, i livelli di glucosio ematico risultano bassi nel digiuno, ma salgono rapidamente e restano elevati dopo un test da carico di glucosio, configurando quella che viene definita, secondo i nostri standard medici, un'intolleranza al glucosio, una condizione di rischio per il diabete mellito.
Le modificazioni dello stile di vita (sedentarietà e sovralimentazione) hanno quindi portato quella che era una caratteristica genetica favorevole ad una condizione di svantaggio selettivo. Se l'ipotesi è vera, è possibile che il processo possa ora subire un'inversione: la selezione naturale stessa potrebbe determinare, nei paesi sviluppati, una riduzione della frequenza di questa caratteristica nella popolazione. Il problema è che questa selezione “negativa” potrebbe non esserci, dal momento che le malattie di questo tipo colpiscono maggiormente la “mezza età”, dopo il periodo della massima fertilità riproduttiva degli individui, e quindi dopo che eventualmente sia avvenuta la trasmissione di questi caratteri ereditari ai figli. E seppure la selezione naturale potesse agire, ci vorrebbero comunque millenni. Tutte le proiezioni statistiche attuali danno invece la frequenza del diabete di tipo 2 in aumento, anche per la maggior precisione diagnostica dei sistemi sanitari occidentali. È quindi opportuno ribadire l'importanza delle corrette abitudini di vita e di alimentazione e, qualora ciò non sia sufficiente, poter intervenire con farmaci efficaci.
Tratto da: ildiabeteoggi, Filippo Tomassetti e Giancarlo De Mattia, 17 agosto 2014