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Curati l'ipertensione salvati la vita

Ci sono malattie per cui le cure non ci sono; ce ne sono altre per cui i farmaci esistono, ma non sono abbastanza efficaci, o riducono molto la qualità di vita. C'è poi un caso per cui la soluzione c'è, ed è tutto sommato economica, ben tollerata ed efficace. Salvo che un paziente su due, dopo un anno, interrompe la terapia. Un paradosso che ha un nome: ipertensione arteriosa. Non si tratta di una vera malattia, ma di una condizione di rischio subdola che lavora silenziosamente a indebolire organi vitali come cuore, rene, cervello.

E quindi aumenta la probabilità di morire di infarto, trombosi, scompenso cardiaco, ictus, insufficienza renale, tanto per fare degli esempi. «La situazione è allarmante perché sappiamo che esiste una relazione fra la mancata aderenza alla terapia e il numero di ricoveri per infarto e ictus», sottolinea Enrico Agabiti Rosei, presidente della Società europea di ipertensione che, nel corso del suo congresso annuale appena concluso a Milano, ha messo nel mirino proprio il problema della mancata aderenza alla terapia lanciando un allarme sui rischi che ne conseguono.

Per capire di cosa si tratta basta pensare che entro il 2025 gli ipertesi nel mondo saranno 1,56 miliardi. Un numero enorme dovuto all'aumento del 90%, registrato negli ultimi anni, di questa condizione nei paesi in via di sviluppo, solo in parte compensato dalla diminuzione registrata in Europa o negli Stati Uniti.

La pressione alta cresce con l'età e quindi la sua prevalenza va a braccetto con l'invecchiamento della popolazione. I dati più aggiornati ci vengono dagli Usa, ma, spiegano gli esperti, possiamo considerarli una buona approssimazione di quanto avviene anche in Italia: l'ipertensione colpisce la metà di uomini e donne cinquantenni (54,6% e 53,7% rispettivamente), dopo i 75 anni, invece, ne soffre la stragrande maggioranza delle persone (76,4% vs 79,9%). Ma se l'età contribuisce a infoltire le schiere degli ipertesi è la disaffezione dei pazienti ai farmaci che crea il danno maggiore.

Uno studio internazionale che ha coinvolto oltre 160mila pazienti ha rivelato che solo il 13% teneva sotto controllo la pressione. In Italia le cose vanno un po' meglio, ma molto ancora c'è da fare. A partire dai dati registrati dalla regione Lombardia, infatti, è stato appurato che il 62-64% dei pazienti non rinnova il piano terapeutico. Insomma, dopo il primo anno non prende più i farmaci. «In generale possiamo dire che il 50% dei pazienti, dopo i primi 12 mesi, abbandona o prende male la terapia: ecco perché il numero di ipertesi trattati che riesce a controllare i valori non supera il 35-40%», sottolinea Agabiti Rosei.

Ma quali sono i valori sopra i quali deve scattare l'allarme? Le linee guida europee del 2013 hanno stabilito che le terapie vanno iniziate solo dopo aver superato la soglia 140-90, ma a sparigliare le carte è arrivato dagli Usa lo studio Sprint, condotto su oltre novemila persone. Gli americani sono convinti che scendere di più, fino a 120, anche negli ultra settantenni, provoca una diminuzione della mortalità. Un risultato attorno al quale - però - gli esperti discutono animatamente: gli europei criticano il modo in cui è stato condotto lo studio e sono dell'idea di non abbassare troppo i livelli, gli americani sono convinti invece del contrario. Nei prossimi mesi, quando nuove linee guida prenderanno forma da una parte e dall'altra dell'Atlantico, vedremo chi la spunterà. Abbassare troppo il limite potrebbe essere un boomerang proprio sul fronte dell'aderenza, soprattutto per i pazienti più anziani che, tanto per fare un esempio, potrebbero andare incontro a svenimenti, cadute e quindi fratture. Gli esperti italiani sono quindi conservativi: meglio ottenere effettivamente 140-90 mm Hg che puntare troppo in basso e rischiare di non arrivare da nessuna parte.

Un'altra strategia da usare per aumentare la fedeltà allo schema terapeutico è quella di iniziare con più di un farmaco: «In questo modo si ottiene più facilmente il controllo e il paziente è invogliato a continuare - spiega Antonio Bartorelli, coordinatore della Cardiologia interventistica del centro cardiologico Monzino di Milano - e la combinazione, inoltre, amplifica l'effetto dei singoli medicinali e consente di diminuirne le dosi, causando quindi meno effetti collaterali». Resta comunque la difficoltà di dover prendere due o tre pasticche al giorno per sempre, nella maggioranza dei casi senza avere dei sintomi evidenti che agiscano da monito per continuare la terapia. Perché se non ci si sente malati difficilmente si accetterà di prendere un farmaco per sempre, e con regolarità. È questo lo scoglio più grande di fronte al quale si trovano i medici, che può essere superato solo se si instaura un rapporto di fiducia fra medico e paziente. «È importante che la terapia sia personalizzata, cioè che tenga conto della realtà del paziente e del suo effettivo rischio. Solo così possiamo convincerlo a seguire una terapia che dura tutta la vita», va avanti Bartorelli.

Ancora meglio sarebbe poter prevenire. Ma se la pressione alta non dà segni allarmanti, come fare ad agire per tempo? «La familiarità è il fattore di rischio più importante per lo sviluppo dell'ipertensione - spiega Bartorelli - in alcuni casi gli ipertesi lamentano mal di testa, ma non è raro che non ci siano sintomi». Tanto che nella maggior parte dei casi l'ipertensione è scoperta per caso, durante una visita di controllo. L'ideale, quindi, sarebbe misurarsi la pressione con costanza, ogni 3-4 mesi. Il “killer silenzioso”, come veniva chiamata una volta l'ipertensione, oggi si può neutralizzare. A patto però di prendere le medicine. E di continuare a farlo sempre.

Tratto da: La Repubblica, Letizia Garbaglio e Mara Magistroni, 20 luglio 2017