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Fibrillazione atriale: i rischi di chi č anche diabetico o «fragile»

Lo studio Etna-Fa, condotto in 10 Paesi europei su pazienti curati con anticoagulanti per la prevenzione dell’ictus suggerisce come personalizzare i trattamenti.

Basta fare due più due: se è vero che la fibrillazione atriale, in Italia, colpisce un ultrasessantacinquenne su 12 e se è vero che, dopo quell’età, aumenta progressivamente anche il rischio di andare incontro ad altri problemi di salute, come malattie cardiovascolari o diabete o disturbi renali, si capisce come, spesso, il medico si trovi a dover affrontare la fibrillazione atriale, tenendo conto di altre patologie e del fatto che il paziente può assumere più farmaci. In altre parole, ha di fronte un malato «complesso» e, a volte, «fragile».

Oggi il rischio di ictus, legato alla fibrillazione atriale, si tiene sotto controllo con i cosiddetti Noac (anticoagulanti orali non vitamina K dipendenti), farmaci introdotti da una decina di anni (in commercio ce ne sono quattro, altri sono in arrivo), più maneggevoli rispetto al vecchio anticoagulante warfarin (dipendente, invece, per il suo funzionamento dalla vitamina K). «Le indicazioni all’uso dei Noac derivano dai cosiddetti trial clinici che, però, sono condotti su pazienti selezionati, non rappresentativi del “mondo reale” – commenta Raffaele De Caterina, professore di Cardiologia all’Università di Pisa. - A questo punto vengono in aiuto i cosiddetti studi post-registrazione dei farmaci. Per fare un paragone: valutare i farmaci con un trial clinico è come valutare un’auto quando corre su una pista; diverso è osservare come funziona su strade normali, in salita o in discesa, in curva o a un incrocio, con altre auto che la ostacolano».

A Barcellona, in occasione del Congresso dell’European Society of Cardiology, è stato presentato uno di questi studi in «real world», chiamato Etna-Af, che ha valutato, in maniera prospettica, l’impiego di uno degli anticoagulanti orali, l’edoxaban, in 13.980 pazienti di 10 Paesi europei. In generale lo studio ha confermato l’ efficacia e sicurezza dell’edoxaban già dimostrata nei trial clinici, ma, in particolare, ha fatto emergere alcuni aspetti che serviranno a utilizzare al meglio questa molecola in diverse situazioni cliniche, con l’obiettivo finale di «personalizzare» il trattamento in ogni singolo malato. Un primo dato riguarda i pazienti con diabete mellito. «Una sotto- analisi del Registro - ha commentato Giuseppe Patti, cardiologo all’Università del Piemonte Orientale - ha dimostrato che i pazienti diabetici, trattati con insulina, vanno più facilmente incontro a eventi avversi, come ictus , attacco ischemico transitorio o evento embolico sistemico, rispetto ai pazienti non trattati con insulina o pazienti non diabetici. Il che significa che nel primo caso occorrerà adottare terapie più aggressive per prevenire questi rischi».

Un altro capitolo ha a che fare con il tema delle «fragilità»: i pazienti fragili con fibrillazione atriale sono particolarmente vulnerabili all’ictus, ma spesso sono sotto-trattati a causa dell’aumento del rischio di sanguinamento. «Il concetto di fragilità è abbastanza nuovo – commenta De Caterina che è anche coordinatore europeo del Registro Etna-Af - e riguarda la capacità di una persona di reagire nella vita reale. La valutazione oggettiva della fragilità avviene attraverso specifici questionari che fanno riferimento, per esempio, alla riduzione della forza muscolare o della velocità del cammino, a una recente perdita di peso, a una facile affaticabilità. La fragilità “percepita”, invece, può variare da medico a medico e, in genere, è sopravvalutata. Questo può comportare un sotto-dosaggio dei farmaci anti-coagulanti che può creare problemi a differenza, invece del sovradosaggio che non ha conseguenze negative perché il farmaco oggetto dello studio è sicuro». Anche in questo caso, dunque, si può trarre una lezione per la personalizzazione del trattamento anticoagulante.

Tratto da: corriere.it, Adriana Bazzi, 02 settembre 2022