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Linee guida Aace 2016: non più solo metformina in prima linea per diabete tipo 2

L'American association of clinical endocrinologists (Aace), in collaborazione con l'American college of endocrinology (Ace), ha aggiornato le indicazioni per la gestione del diabete di tipo 2 con la nuova edizione pubblicata sia sul sito Aace sia su "Endocrine Practice", che combina in un solo documento il testo e nove algoritmi separati distinti da una grafica colorata per lo stile di vita, il sovrappeso, l'obesità, il pre-diabete, il controllo glicemico, la terapia insulinica, i fattori di rischio cardiovascolare, i profili terapeutici dei farmaci e i principi guida. «Nel documento di consenso statunitense, vi sono alcuni aspetti, non solo tecnici, che, rispetto alle indicazioni degli standard italiani, meritano qualche considerazione» premette Mauro Ragonese, segretario del Consiglio direttivo nazionale Amd (Associazione Medici Diabetologi) e coordinatore sanitario dei Centri Diabetologici e Poliambulatori di Acismom. «Un aspetto importante dell'edizione 2016 delle linee guida Aace è la scarsa attenzione alla sostenibilità e agli aspetti economici» puntualizza Ragonese. «Soprattutto nelle prime fasi della malattia, quando alla correzione dello stile di vita si associa il primo trattamento farmacologico - che nei nostri standard di riferimento è la metformina - il testo si apre in maniera molto più ampia a tutte le classi farmacologiche, anche quelle a costo significativo (come gli analoghi del Glp-1 o gli inibitori del riassorbimento tubulare del glucosio)». Una grande innovazione sono le tavole a colori. «Sono intuitive e servono ad agevolare la pratica clinica» sottolinea. «Per esempio, quella dedicata al controllo glicemico, riunisce tutti i concetti in una sola tabella, facilmente consultabile nella pratica clinica». Ragonese evidenzia un'altra caratteristica peculiare. «Da tempo linee guida e algoritmi sono accompagnati dai livelli di prova e dalla forza delle raccomandazioni che qui, invece, non sono riportate». Un aspetto ribadito con grande forza nelle linee guida Aace - aggiunge l'esperto - è la necessità di un approccio multifattoriale al diabete, non più e non solo limitato all'ambito glicemico ma, adottando la stessa tempestività e aggressività clinica, all'assetto lipidico, alla pressione arteriosa, al sovrappeso e al fumo. «Soprattutto» rimarca «in qualsiasi fase della malattia, sono identificati due fattori fondamentali nella scelta della terapia: da una parte il rischio di ipoglicemia e dall'altra l'aumento di peso. Uno dei tipici problemi della terapia farmacologica del diabete, infatti, è che gran parte dei trattamenti determinano, a vario grado, un incremento ponderale, spesso in modo marcato». In sostanza, riassume Ragonese, l'approccio multifattoriale, consiste da un lato in una simultanea aggressività e tempestività su tutti i fattori di rischio cardiovascolare (fumo, dislipidemia, sovrappeso, obesità) che aumentano drammaticamente il rischio del paziente con diabete di tipo 2, dall'altro in un'attenzione fondamentale all'ipoglicemia. Quest'ultima, difatti, non solo rappresenta un elemento di rischio cardiovascolare ma induce ricoveri e quindi significativi costi diretti e indiretti, oltre a comportare una ridotta aderenza alla terapia: dopo alcune esperienze di ipoglicemia, il paziente cercherà di adottare alcuni espedienti per ridurne il rischio, da un consumo più abbondante di carboidrati, anche lontano dai pasti principali, fino alla modifica "autogestita" della terapia domiciliare. «Un nuovo aspetto» prosegue Ragonese - specificando che si tratta peraltro di un elemento ormai comune a tutte le linee guida «riguarda l'individualizzazione degli obiettivi clinici ma anche alla luce dell'età del soggetto. «Si è visto, specie negli Usa, che un'aggressività eccessiva negli obiettivi glicemici (glicemia a digiuno, post-prandiale e HbA1c) in determinate condizioni è controproducente perché aumenta il rischio di ipoglicemia ed espone le persone "fragili" (quali i soggetti anziani) a rischi inappropriati» evidenzia lo specialista. «L'individualizzazione degli obiettivi sta dunque alla base dell'individualizzazione della terapia che, però, considera anche le caratteristiche della persona (maggiore o minore autonomia, eventuali complicanze e loro gravità, presenza di disagio sociale o familiare). Per questo l'algoritmo è utile: permette di rendere il più sartoriale possibile la terapia». Altri tre aspetti importanti restano da esaminare, secondo Ragonese. Il primo riguarda il timing degli interventi. «Quando un diabetologo si pone un obiettivo glicemico, approccia una terapia e ha un arco di tempo per poi reintervenire» ricorda. «Questo documento però pone limiti molti precisi nella definizione di questi tempi: se dopo 3 mesi gli obiettivi non sono raggiunti occorre apportare modifiche secondo l'algoritmo per arrivare a target. Questo vale per tutti quanti i fattori di rischio. Lo schema è "azione, 3 mesi, verifica, se obiettivo non raggiunto subito un altro passo, e così via fino al raggiungimento del target". Ciò focalizza l'attenzione sulla correzione delle abitudini di vita, un concetto sempre presente ma un po' collaterale e qui invece sottolineato con una specifica tavola dedicata alla correzione degli stili di vita del paziente in sovrappeso. Il documento è influenzato dal problema della grande obesità, frequente negli Stati Uniti, ma che sta progressivamente interessando anche la nostra popolazione. Un tempo adeguato deve essere pertanto dedicato al counseling del paziente e occorre essere più efficaci nella sua autonomizzazione e motivazione alla cura di sè». Una delle tavole è dedicata all'algoritmo del pre-diabete. «Nelle nostre linee guida abbiamo sempre sconsigliato l'uso di questo termine preferendo la dizione di "stato di alterata tolleranza ai carboidrati"» osserva il segretario nazionale AMD. «Le linee guida AACE, invece, focalizzano moltissimo l'attenzione su questa fase, che non necessariamente porta a diabete, ma che viene identificata come situazione autonoma di rischio aumentato di malattia cardiovascolare, da riconoscere precocemente per evitare interventi tardivi». Infine, ampio risalto è dato all'attenzione alla titolazione farmacologica. «Se la scelta terapeutica è appropriata ma il dosaggio di cura non è adeguato il trattamento non sarà efficace» dice Ragonese. «La stessa scarsa adesione al percorso di cura non deriva solo dalla persona con diabete ma anche da ritardi nel percorso diagnostico-terapeutico (lentezza nel fare cambiamenti o aggiustamenti della dose del farmaco per difetti organizzativi o di approccio del team o nell'uso di remind). Questo documento stressa molto il concetto: occorre raggiungere l'obiettivo, anche attraverso la corretta titolazione della dose dei farmaci prescritti». Un cenno, infine, all'impostazione di fondo al paziente con diabete di tipo 2. Il cut-off di normalità per l'HbA1c è posto a 6,5% (indicativo del compenso glicemico negli ultimi 3 mesi). Nelle altre situazioni si descrivono tre classi terapeutiche. «Se la persona ha un valore tra 6,5% e 7,5% si adottano modifiche allo stile di vita e monoterapia. Se si trova in un range compreso tra 7,5% e 9% si comincia subito con una dual therapy. Se ha un valore di glicata superiore a 9% si inizia subito con due o più farmaci, spostandosi verso la politerapia o con insulina in caso di un quadro clinico sintomatico» conclude Ragonese.

Tratto da: Diabetologia33, 11 febbraio 2016