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Pubblicate le linee guida 2016 sulla gestione del diabete dell’American Diabetes Association

Per una gestione del diabete a tutto tondo che comprende anche il trattamento dei fattori di rischio cardiovascolari e tutte le visite di controllo necessarie a tenere sotto controllo la comparsa delle complicanze oculari, renali, cardiovascolari e neurologiche di questa condizione.

Il Professional Practice Committee (PPC) dell’American Diabetes Association (ADA) presenta alla comunità scientifica l’edizione 2016 degli Standards of Medical Care in Diabetes, ovvero le linee guida ADA sulla diagnosi, trattamento, obiettivi di terapia e strumenti per valutare la qualità dell’assistenza erogata.

Pubblicata su Annals of Internal Medicine, l’edizione aggiornata linee guida recepisce le nuove evidenze disponibili sull’argomento, con riferimento particolare alla letteratura scientifica pubblicata dal primo gennaio al 7 dicembre 2015 su MEDLINE.

 La sinossi in particolare si focalizza su otto aree, rilevanti per le cure primarie. Viene sottolineata l’importanza di un’assistenza su misura per la gestione del diabete, la possibilità di prevenirne o ritardarne le complicanze e di migliorare i risultati. Queste le otto aree affrontate dalle linee guida: diagnosi, target glicemici, gestione medica, ipoglicemia, gestione dei fattori di rischio cardiovascolari, screening e gestione delle patologie micro vascolari, gestione della persona con diabete ricoverata.

La versione completa della nuova edizione degli Standards è disponibile su http://professional.diabetes.org/content/clinical-practice-recommendations.

Diagnosi.

L’ADA considera ‘diabete’ un’emoglobina glicata ≥ 6,5%, una glicemia a digiuno  ≥ 126 mg/dl, una glicemia alla seconda ora di un test da carico orale di glucosio (OGTT da 75 grammi) ≥ 200 mg/dl o valori di glicemia in qualunque momento della giornata  ≥ 200 mg/dl (diagnostici solo in un paziente con i sintomi classici dell’iperglicemia o di una crisi iperglicemica).

Per ‘prediabete’ si intende invece un livello di glicata compreso tra 5,7 e 6,4%, una glicemia a digiuno compresa tra 100 e 125 mg/dl, una glicemia alla seconda ora di un OGTT compresa tra 140 e 199 mg/dl.

Le linee guida dell’ADA raccomandano di sottoporre le donne in gravidanza senza diabete noto ai test per la diagnosi di diabete alla prima visita prenatale; la valutazione della presenza di diabete gestionale dovrebbe essere fatta a 24 e a 28 settimane, attraverso la strategia ‘1-step’, cioè con un OGTT da 75 grammi, o quella ‘2-step’, consistente in uno screening con OGTT da 50 grammi, seguito da un OGTT da 100 grammi in chi risultasse positiva al test iniziale.

Le donne con diabete gestazionale andrebbero rivalutate a 6 e 12 settimane dopo il parto, avvalendosi dei criteri diagnosi non gravidici. Infine le donne con storia di diabete gestazionale dovrebbero essere screenate per diabete o prediabete almeno una volta ogni 3 anni.

Una diagnosi di MODY (Maturity-onset diabetes of the young), condizione causata da un deficit di secrezione insulinica ereditato come tratto autosomico dominante, andrebbe sospettata nei pazienti con lieve e persistente iperglicemia a digiuno e vari membri della famiglia con una forma di diabete, non tipica né del tipo 1, né del tipo 2.

Viene inoltre ricordato che alcuni farmaci, quali glucocorticoidi, diuretici tiazidici e antipsicotici atipici possono aumentare il rischio di diabete.

Targetglicemici.

Le linee guida americane ribadiscono l’importanza del controllo glicemico che va effettuato attraverso l’automonitoraggio (SMBG) e i valori di emoglobina glicata. In alcuni pazienti selezionati andrà considerato il ricorso al monitoraggio continuo del glucosio interstiziale, in aggiunta all’automonitoraggio.

“L’automonitoraggio della glicemia – scrivono gli autori – è parte integrante di una terapia efficace, poiché consente ai pazienti di valutare le risposte individuali e di verificare il raggiungimento o meno dei target glicemici. Frequenza e timing dell’autocontrollo dipendono dai trattamenti, dagli obiettivi e dalle necessità individuali. L’emoglobina glicata andrà controllata almeno due volte l’anno nei pazienti a target e con controllo glicemico stabile; ogni tre mesi in quelli che hanno cambiato terapia o che non siano a target. Vengono infine ricordati i limiti dell’emoglobina glicata, in tutte quelle condizioni che influenzino il turnover eritrocitario (emolisi, emorragie) e nei soggetti con emoglobine patologiche (es. anemia falciforme).

Il target di glicata negli adulti dovrebbe essere inferiore a 7%; in pazienti selezionati (diabete di recente insorgenza, diabete di tipo 2 trattato con stile di vita sano e metformina, lunga aspettativa di vita, assenza di malattie cardiovascolari) ci si può spingere verso valori inferiori a 6,5%. Il rischio di un target così ambizioso naturalmente è l’ipoglicemia.

Target meno stringenti (glicata inferiore a 8%) andrebbero presi in considerazione nei soggetti con storia di gravi episodi di ipoglicemia (<40 mg/dl), limitata aspettativa di vita, complicanze micro e macrovascolari di grado avanzato, gravi comorbilità o diabete di lunga durata. Anche il target terapeutico va dunque individualizzato.

Ipoglicemia (glicemia < 70 mg/dl).

Rappresenta il maggior limite al trattamento sia del diabete di tipo 1 che del diabete di tipo 2 in terapia insulinica. Una grave ipoglicemia, caratterizzata da alterazioni cognitive, è quella che richiede l’aiuto di un’altra persona. Ai pazienti a rischio andrebbe prescritto il glucagone e i familiari andrebbero istruiti sulle modalità di somministrazione; è consigliabile anche la somministrazione di glucosio ad azione rapida (10-20 grammi). La correzione della glicemia andrebbe confermata da una misurazione con striscia reattiva a 15 minuti; se l’ipoglicemia persiste si rende necessario ripetere il trattamento.

Trattamento medico del diabete

Comprende una serie di fattori comportamentali, dietetici, di correzione di stili di vita, oltre ai farmaci. Tutti i pazienti andrebbero istruiti all’auto-gestione, andrebbe fornita loro una dieta personalizzata confezionata da un dietista, prescritto un programma di attività fisica di almeno 150 minuti a settimana di attività aerobica a moderata intensità e di training di resistenza almeno due volte a settimana.

Diabete di tipo 1

La maggior parte dei pazienti sono trattati con iniezioni giornaliere multiple di insulina o somministrazione sottocutanea continua con microinfusore. I pazienti andrebbero educati ad adeguare la posologia insulinica alla conta dei carboidrati, ai valori preprandiali di glicemia e al livello di attività fisica previsto. Le linee guida consigliano l’uso di analoghi dell’insulina per ridurre il rischio di ipoglicemia.

Diabete di tipo 2

La scelta dei farmaci dovrebbe essere guidata da un approccio paziento-centrico. Il primo passo riguarda la correzione degli stili di vita, la prescrizione dell’attività fisica e il consiglio di perdere almeno il 5% del peso iniziale per i soggetti in sovrappeso o obesi. Se tutto ciò non fosse sufficiente, si passa al trattamento con metformina (se tollerato e non controindicato). Nuovi dati suggeriscono che questo farmaco può essere somministrato, ma a dosaggio ridotto, anche nei soggetti con insufficienza renale, fino ad un GFR di 30-45 ml/min.

Terapia di associazione. Se non si riesce a raggiungere o a mantenere il target di glicata per 3 mesi attraverso una ionoterapia, con un farmaco diverso dall’insulina, è necessario aggiungere un secondo farmaco. Ma se la glicata iniziale è > 9% è possibile partire direttamente con una terapia di associazione. Alla metformina possono essere associati farmaci di 6 diverse classi: sulfaniluree (o glinidi nei soggetti con ipoglicemia postprandiale tardiva da sulfaniluree), tiazolidinedioni, DPP4-inibitori, SGLT2 inibitori, GLP-1 agonisti o insulina basale (NPH, detemir, glargine o degludec). In pazienti selezionati possono essere utilizzati anche altri farmaci, quali inibitori dell’alfa-glucosidasi, bromocriptina, colesevelam, pramlintide.

Insulina basale

Da iniziare al dosaggio iniziale di 10 u. o di 0,1-0,2 unità/Kg di peso corporeo. Va titolata sulla base dei valori di glicemia della mattina a digiuno. Per ridurre la glicemia post-prandiale può essere aggiunto o un GLP-1 agonista o un’insulina prandiale (1-3 iniezioni al giorno) ad azione rapida, preferibilmente un analogo rapido (lispro, aspart o glulisine). In alcuni pazienti selezionati può essere necessario ricorrere agli analoghi premiscelati. Normalmente, quando si arriva allo schema di terapia insulinica basal-bolus, si sospende la terapia con sulfoniluree, DPP4-inibitori e GLP-1 agonisti. Pioglitazone e SGLT2 inibitori possono essere mantenuti per migliorare il compenso glicemico e ridurre le unità di insulina giornaliere.

Trattamento dei fattori di rischio cardiovascolari

La principale causa di mortalità e di morbilità nei soggetti con diabete è rappresentata dalle malattie aterosclerotiche cardiovascolari (infarto, angina stabile e instabile, rivascolarizzazione coronarica o di altre arterie, ictus, attacco ischemico transitorio, arteriopatia periferica). In tutti i soggetti con diabete è dunque necessario effettuare una valutazione sistematica di tutti i fattori di rischio cardiovascolari (dislipidemia, ipertensione, fumo, storia familiare di coronaropatia prematura, albuminuria) su base annuale. I benefici maggiori del trattamento si ottengono correggendo simultaneamente più fattori di rischio.

Ipertensione. Va misurata ad ogni visita. Gli esperti dell’ADA fissano il goal terapeutico su valori <140/90 mmHg e non raccomandano di abbassarla sotto i 130/70 mmHg nelle fasce d’età più avanzata. Le misure di igiene di vita comprendono la perdita di peso, la dieta iposodica, un consumo di alcol moderato e un incremento dell’attività fisica. La terapia farmacologica dovrebbe comprendere un ACE-inibitore o un sartano (ma non entrambi contemporaneamente e mai in gravidanza). In genere, per raggiungere i target pressori, è necessaria una terapia di associazione.

Dislipidemia.

Al momento della diagnosi di diabete va anche valutato l’assetto lipidico, da ripetere almeno ogni 5 anni o più di frequente se indicato. L’assetto lipidico va monitorato anche nei soggetti in terapia con statine. Anche in questo caso valgono le misure di igiene di vita: perdita di peso dove necessario, ridotto apporto di grassi saturi, di grassi ‘trans’, di colesterolo. È consigliabile invece aumentare l’assunzione di acidi grassi ω-3, fibre viscose e stanoli o steroli vegetali; aumentare l’attività fisica. L’impiego di una statina è raccomandato nella maggior parte delle persone con diabete di età superiore ai 40 anni. L’aggiunta eventuale di ezetimibe produce ulteriori benefici in ambito cardiovascolare e andrebbe considerata nei soggetti con una recente sindrome coronarica acuta e in chi, avendo elevati livelli di LDL, è intollerante ad un regime di statine ad alta intensità. L’associazione statina-fibrati non viene raccomandata ma può essere considerata nei maschi con trigliceridi superiori a 204 mg/dl e HDL inferiore a 34 mg/dl.

Antiaggreganti piastrinici.

La terapia con aspirina (75 o 162 mg/die) è raccomandata in prevenzione primaria nei soggetti con diabete di tipo 1 e di tipo 2 ad aumentato rischio cardiovascolare (rischio a 10 anni > 10%). L’aspirina in prevenzione secondaria è una strategia ben consolidata nei soggetti con diabete e storia di malattie cardiovascolari. In chi è allergico all’aspirina, si può optare per il clopidogrel.

Nefropatia diabetica.

È la principale causa di insufficienza renale terminale; un trattamento intensivo del diabete può ritardare l’inizio e progressione dell’albuminuria e della riduzione del GFR. È consigliabile effettuare ogni anno uno screening per nefropatia diabetica richiedendo un rapporto albumina-creatinina urinario e calcolando l’eGFR nei soggetti con diabete di tipo 1 da almeno 5 anni, in tutti i soggetti con diabete di tipo 2 e in tutti quelli con ipertensione come condizione comorbile. I soggetti con livelli persistentemente elevati di albuminuria (≥ 300 mg/die) sono quelli più a rischio di sviluppare un’insufficienza renale terminale.

Retinopatia.

L’ottimizzazione del controllo glicemico, della pressione e dei lipidi plasmatici è fondamentale per ridurre il rischio e per rallentare la progressione della retinopatia diabetica. Andrebbe effettuata una visita oculistica annuale in tutti i soggetti con diabete di tipo 1 iniziato da oltre 5 anni e in tutti i soggetti con diabete di tipo 2.

Neuropatia.

Un buon compenso glicemico può prevenire o ritardare la neuropatia (parestesie, perdita di sensibilità) e la neuropatia autonomica cardiovascolare (tachicardia a riposo e ipotensione ortostatica) nei soggetti con diabete di tipo 1 e può rallentarne la progressione nel tipo 2. Le manifestazioni della neuropatia autonomica diabetica vanno dalla gastroparesi, alla stipsi, dalla diarrea all’incontinenza fecale, dalla vescica neurologica, alla disfunzione erettile. Alcuni dei trattamenti utilizzati sono: antidepressivi triciclici, venlafaxina, carbamazepina, capsaicina topica, tramadolo.

Piede.

Tutti i soggetti con diabete di tipo 1 da più di 5 anni e tutti i tipo 2 dovrebbero essere sottoposti ad esame del piede una volta l’anno, utilizzando il test con monofilamento da 10-g e lo studio della sensazione puntoria, della percezione vibratoria e dei riflessi della caviglia. Va inoltre valutata l’integrità della cute, individuate eventuali deformità ossee e valutati i polsi pedidii. I pazienti a rischio vanno istruiti all’autocontrollo del piede quotidiano. Nei soggetti oltre i 50 anni, nei più giovani con fattori di rischio per arteriopatia periferica o con diabete di durata superiore ai 10 anni andrebbe effettuato il test ABI (ankle–brachial index).

Il paziente con diabete in ospedale.

I target glicemici nei pazienti ospedalizzati sono fissati dagli esperti americani su 140-180 mg/dl nella maggior parte dei soggetti non critici e critici. Per alcuni pazienti, quali quelli cardiochirurgici e quelli con eventi ischemici acuti cardiaci e neurologici, può essere appropriato un target di 110-140 mg/dl, sempre che non metta il paziente a rischio di ipoglicemia. Nei pazienti terminali sono ritenuti accettabili anche valori più elevati di glicemia. Gli episodi di ipoglicemia in ospedale si associano ad una maggiore mortalità. Cause iatrogene di ipoglicemia sono un’improvvisa riduzione di dosaggio di una terapia cortisonica, l’incapacità del paziente di riferire i sintomi, il vomito, la somministrazione di insulina rapida lontano dai pasti, un’improvvisa interruzione della nutrizione orale, enterale o parenterale.

Tratto da: Quotidiano Sanità, Maria Rita Montebelli, 08 marzo 2016