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In un anno il pancreas artificiale italiano

Sempre più piccoli, sempre più portatili. E sempre più efficaci: ottimi i risultati negli adulti, incoraggianti nei bambini. Tanto che il pancreas artificiale made in Italy potrebbe essere messo in commercio nel giro di un anno.

A lungo rincorso come una chimera, da un paio di anni la tecnologia del pancreas artificiale sembra diventata decisamente più reale. Lo scorso settembre negli Usa, è stato approvato il primo sistema di pancreas artificiale, ma diversi gruppi nel mondo sono al lavoro nello sviluppo di un dispositivo che possa rivoluzionare la gestione della malattia per tanti pazienti. Perché il pancreas artificiale – nella formulazione classica un sistema che monitora i livelli di glucosio sottopelle, li invia a un tablet o dispositivo via wireless, che con un algoritmo calcola la quantità giusta di insulina da iniettare – promette di liberare il paziente dal pensiero costante della malattia. Pensando alla quantità di insulina da iniettare, aiutando a capire quando e come. Per il paziente di tipo 1, ma non solo. Una tecnologia che parla tanto italiano.

Il team di Claudio Cobelli, docente di ingegneria biomedica all’università di Padova, lavora da una decina di anni al progetto di un pancreas artificiale.

Progetto che sembra essere ormai vicinissimo dal diventare reale, tanto che, ha raccontato a Wired durante l’Advanced Technologies & Treatments for Diabetes (Attd) appena concluso a Parigi, potrebbe arrivare in commercio nel giro di un anno o poco più. Al congresso Cobelli ha presentato gli ultimi risultati sul pancreas artificiale italiano. Risultati che riguardano tanto il cervello del pancreas artificiale: l’algoritmo che riceve le misurazioni della glicemia e calcola la quantità di insulina da iniettare nei pazienti.

Una collaborazione che si snoda tra l’università di Padova, l’università di Pavia e l’università della Virginia.

“Il nostro dispositivo”, racconta Cobelli, “è in grado di mandare allarmi in caso di ipoglicemia e di bloccare o attenuare così l’infusione di insulina”, quando cioè i livelli di glucosio scendono pericolosamente e avvertendo magari il paziente quando è il caso di assumere carboidrati, per riportare i livelli di glicemia nell’intervallo ottimale. Un’automazione frutto di anni di ricerca, che mira a controllare e mantenere la glicemia all’interno del range consigliato e continua ora con il team di Cobelli impegnato ad affinare e rendere sempre più predittivo questo algoritmo.

Da una parte aumentando il tempo di test negli studi clinici – era di appena un giorno una decina di anni fa mentre oggi siamo arrivati a due tre mesi di studio, ed anche oltre in alcuni casi. Dall’altra riducendo le dimensioni dell’intero apparato: se nel 2007 un computer era necessario per gestire i dati, oggi, racconta Cobelli, siamo in grado di far girare gli algoritmi su dispositivi piccoli come uno smartphone. “All’interno dello stesso paziente, nello stesso giorno e tra un giorno e l’altro ci sono delle variazioni nei livelli di glucosio e di sensibilità all’insulina che l’algoritmo deve imparare a gestire: quello che abbiamo osservato è che testando il pancreas artificiale in studi di lungo termine, come un paio di mesi, c’è la possibilità che l’algoritmo impari dai giorni precedenti, è adattativo”. Questa capacità di adattarsi, continua Cobelli, permette all’algoritmo di predire cosa succede al glucosio nel corso della giornata e di affinare le infusioni di insulina sulla base di queste previsioni.

Gli ultimi studi, condotti in silicio, presentati al congresso e in via di pubblicazione, sono piuttosto incoraggianti: un algoritmo predittivo è in grado di ridurre le variazioni di glucosio durante la giornata, estendendo l’intervallo di tempo passato all’interno del target definito e riducendo il tempo in condizioni di ipo e iperglicemia. Risultati incoraggianti, e che fanno ben sperare per gli studi sui pazienti, sebbene rimangano ostacoli da superare.

Perché la teoria è molto diversa dalla pratica, fatta di problemi tecnici, pasti che saltano, spuntini che si aggiungono a quelli tradizionali, magari anche di notte, quando teoricamente non siamo attivi fisicamente e non mangiamo. “Sappiamo però che possiamo migliorare: gli studi condotti sugli adulti, quelli che sono più avanti nel tempo, ci invitano a proseguire su questa strada: i primi dati ci mostrano che anche in vivo, nei pazienti, l’algoritmo giorno per giorno di adatta e che alla fine di un mese di test, il controllo della glicemia nel target stabilito migliora, tanto che nel giro di un anno e mezzo anche il nostro dispositivo potrebbe vedere la luce e diventare disponibile”, continua Cobelli.

In particolare per i pazienti di tipo 1, quelli per cui è nato il pancreas artificiale, e soprattutto per coloro con molta variabilità nei livelli di glicemia, adulti ma anche bambini: uno studio condotto dal team di Cobelli e pubblicato lo scorso anno, ha mostrato infatti che anche nei più piccoli il pancreas artificiale, testato nel corso di una settimana in un camp estivo per bimbi da 5 a 9 anni, poteva ridurre gli episodi di ipoglicemia. Ma anche i pazienti con diabete di tipo 2 potrebbero beneficiare del pancreas artificiale, specie se anziani e insulino-dipendenti. “In Inghilterra”, continua Cobelli, “i test del pancreas artificiale sui pazienti con diabete di tipo 2 sono molto avanti, così come quelli in gravidanza, su donne diabetiche, per il controllo durante il parto”.

La rivoluzione oggi però passa anche dal miglioramento delle tecniche di monitoraggio dei livelli di glicemia, il punto di partenza per i pancreas artificiali che verranno e il punto di base per la gestione della malattia nella vita di tutti i giorni. E anche qui l’innovazione non si ferma. Proprio in questo campo, nel corso del congresso, è stato presentato Eversense Senseonics, il primo sistema per il monitoraggio continuo del glucosio impiantabile che dura fino a 90 giorni, ma in futuro potrebbe raggiunge i 180 giorni. Ideale per chi soffre di diabete di tipo 1 con crisi di ipoglicemia inavvertite e che possono essere quindi segnalate quando i livelli di glucosio scendono troppo. Consigliato per un monitoraggio costante e regolare, ma al tempo stesso flessibile. Il dispositivo – un sensore grande quanto una pillola, applicabile con un semplice intervento ambulatoriale di pochi minuti e che trasmette i dati in bluetooth allo smartphone attraverso un piccolo trasmettitore che si applica sulla pelle – è in grado di avvertire il paziente di possibili episodi di glicemia ma trasmette segnali di allarme anche tramite vibrazione sulla pelle.

Tratto da: Galileonet, Anna Lisa Bonfranceschi, 21 febbraio 2017