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Diagnosi, comunicarla è l’inizio di un dialogo

 

«Spesso ai medici manca tale arte - sostiene il prof. Marco Trabucchi -, sia perché non sono in grado di esprimere in modo adeguato le loro idee sia perché non intuiscono le priorità del paziente e quindi quello di cui vorrebbe parlare o su cui spera d’essere informato»
Dal 15 al 17 aprile si svolgerà al Grand Hotel di Gardone Riviera il decimo Congresso nazionale dell’Associazione italiana di Psicogeriatria. Tema congressuale è «La psicogeriatria dopo dieci anni, uno sguardo al futuro».
Dieci anni caratterizzati, da un lato, alla doppia fedeltà alla ricerca e alla possibilità di costruire attraverso la scienza un futuro migliore e, dall’altro, alle persone gravate qui ed ora dal peso della malattia, del dolore, della tristezza, della solitudine e delle povertà.
Ospitiamo parte dell’editoriale del prof. Marco Trabucchi, presidente dell’Aip e collaboratore della nostra pagina, nella parte in cui analizza le modalità di comunicazione della diagnosi alla persona anziana e ai suoi famigliari e il dovere, da parte di chi cura, di accompagnare al di là dell’aspetto di carattere strettamente tecnico.
La comunicazione della diagnosi è la tappa finale del processo diagnostico, cioè di una conoscenza approfondita del paziente; non è quindi la fredda trasmissione di informazioni, ma l’inizio di un dialogo che accompagna la vita di chi deve essere assistito. Il contenuto sarà quindi per definizione articolato, ma allo stesso tempo legato ad una visione d’insieme dell’ammalato. Troppo spesso ai medici manca l’arte del comunicare, sia perché non sono in grado di esprimere in modo adeguato le proprie idee sia perché non intuiscono quali sono le priorità del paziente e quindi quello di cui vorrebbe parlare o sui cui spera di essere informato. Anche l’atto della comunicazione della diagnosi dovrà seguire alcune regole sul piano formale, ma soprattutto su quello della comprensione delle attese e dei bisogni del paziente, che in alcuni casi possono essere più extraclinici che non clinici. Sarebbe quindi un grave errore isterilire la comunicazione a soli aspetti tecnici, senza valorizzare il contorno dove si possono capire le attese, le difficoltà, le incertezze dell’ammalato.
Accendere la speranza
L’atto del comunicare va fatto con l’impegno a mantenere accesa la speranza e quindi deve essere tecnicamente sempre collegato ad un’ipotesi prognostica. Per il paziente una diagnosi separata dalla prognosi non ha alcun significato, se non quello di attivare paure ed angosce se la terminologia usata fa risuonare esperienze del passato o informazioni più o meno distorte. Ma anche per il medico la diagnosi da sola non offre spunti per il dialogo. Il medico deve intuire il livello di ansia della persona che gli sta di fronte, che non sempre è pronta a ricevere una diagnosi; anzi, talvolta non vorrebbe sapere nulla, affidandosi completamente alle decisioni ed alle prescrizioni del medico di fiducia (mai come in questo caso la dizione burocratica assume un intenso significato umano!). Il paziente «pauroso» non è criticabile, anche perché è così dipendente dal medico che se viene adeguatamente rasserenato diventa un attento esecutore dei consigli e delle prescrizioni. Se la visione della condizione clinica si ispira ad una visione unitaria, la comunicazione si colloca in una logica che prevede attenzione anche alle capacità del paziente di capire, accettare, metabolizzare, dare un senso alle informazioni.
Il rapporto con la famiglia
In alcune situazioni, come quelle degli anziani affetti da più malattie contemporaneamente, la prognosi richiede un’analisi multidimensionale del paziente, operazione che di per sé innesca un rapporto intenso con l’ammalato e con la sua famiglia, creando le precondizioni per cui la comunicazione della diagnosi-prognosi diviene un atto in continuità con la presa in carico. La separazione tra diagnosi e prognosi ha una ragione prevalentemente formale; i due momenti sono una tappa unica nel processo di comunicazione, anche per dare il messaggio che la diagnosi non è solo un atto tecnico, ma un punto di arrivo e di partenza allo stesso tempo, sempre caratterizzato da una forte presenza del medico, con la sua cultura e la sua sensibilità. E questi mai si laverà le mani di fronte a passaggi difficili nella storia naturale di un paziente e nella vita della sua famiglia; mai pronuncerà la frase «dovete decidere voi», perché è la dimostrazione dell’incapacità di comprendere il dolore, le debolezze, le incertezze dell’interlocutore. Nel caso della demenza la comunicazione dovrà essere misurata sulla capacità del paziente di comprendere il significato della diagnosi, sia rispetto alle sua struttura psichica sia all’utilità della comunicazione; non è un totem da onorare acriticamente, ma quando possibile è un passaggio per rispettare il paziente (non sul piano formale, ma nella sostanza delle sue decisioni, attese, speranze, ecc.). In questa logica di interventi mirati e continuativi non trova spazio l’esigenza da taluni formulata di disporre di figure ad hoc per comunicare la diagnosi e seguire il paziente per gli aspetti psicosociali. Sarebbe un cedere al fascino della specializzazione anche in ambiti dove interferisce con il rapporto medico-paziente, senza apportare reali vantaggi.
Difficoltà di comprensione
Vi sono situazioni particolari nelle quali la comunicazione della diagnosi e l’indicazione dei comportamenti conseguenti è difficile, perché le condizioni di lavoro impediscono una relazione approfondita, che porti anche a verificare se il paziente ha realmente compreso i messaggi del medico, necessari per il proseguimento delle cure. Uno studio recente - condotto nel pronto soccorso degli ospedali nei quali si è svolta la ricerca - ha dimostrato che il 78% dei pazienti non capisce almeno uno degli argomenti dei quali ha discusso con il medico (diagnosi, trattamento ricevuto in pronto soccorso, istruzioni terapeutiche, i segni di allarme che dovrebbero indurre un ritorno in ospedale, ecc.). Vi sono molte possibili spiegazioni del fenomeno, tra le quali l’ansia e le paure del paziente da una parte, la fretta e le preoccupazioni del medico per pazienti molto gravi, dall’altra. Al fondo resta la tematica della crisi dei rapporti; il pronto soccorso è uno dei luoghi dove si manifesta nel modo più violento e con conseguenze più spiacevoli.
Infatti in pochissimo tempo si deve costruire un dialogo tra sconosciuti, navigando tra dati tecnici spesso difficili da comprendere, in condizioni di stress elevato. Ma proprio la condizione di crisi imporrebbe la messa in atto di atteggiamenti concreti per superarla, con indubbi vantaggi sia per gli operatori sia per i pazienti. Chi soffre di più nei momenti di passaggio, come un pronto soccorso, è la persona che non riesce a comprendere la propria collocazione, che è impressionato da rumori, voci, luci, ecc.; verso di lui la comunicazione deve essere particolarmente attenta, sia rispetto alle grandi cose (la diagnosi), sia rispetto ai piccoli consigli utili nell’immediato o ad una mano rassicurante che si appoggia sul capo.
Tratto da: Giornale di Brescia, Anna Della Moretta, 12 aprile 2010