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I donatori di sangue in Italia: tanti e affidabili, ma mancano i giovani

Sono in tanti a mantenere l’impegno, ma hanno per lo più un’età compresa tra i 30 e i 55 anni. Per garantire le terapie trasfusionali sul territorio serve il ricambio generazionale. È quanto emerge da una ricerca del Centro nazionale sangue.

Sono tanti, sono costanti, sono indispensabili, ma non sono giovani. Tra gli oltre un milione e 700 mila donatori di sangue in Italia la maggior parte ha un’età compresa tra i 30 e i 55 anni. Nel 2015 gli under 30 rappresentavano il 31 per cento del totale. Una percentuale troppo bassa e destinata a diminuire con l’invecchiamento della popolazione. Dati demografici alla mano tra il 2009 e il 2020, la riduzione dei donatori è stimata nel 4,5 per cento. 

Il problema emerge nella ricerca “La vitale cultura del dono e il Sistema sanitario in Italia” realizzata dal Centro nazionale sangue in collaborazione con le associazioni e federazioni dei volontari italiani del sangue, Avis, Croce Rossa, Fidas, Fratres e presentata all’Istituto Superiore di Sanità in occasione della Giornata mondiale del donatore di sangue.

Gli italiani che donano il sangue prendono seriamente il loro impegno.  L’83 per cento lo fa periodicamente e non una volta ogni tanto, consapevole di dare un contributo fondamentale al Sistema sanitario permettendo di garantire su tutto il territorio nazionale, le terapie trasfusionali, che rientrano nei Livelli essenziali di assistenza (Lea).

«Lo slogan che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha scelto quest’anno per celebrare la giornata mondiale: Blood connects us all, il sangue ci unisce tutti, evoca molti significati e stimola la nostra riflessione - dice Angelo Lino del Favero, direttore generale dell’Istituto Superiore di Sanità - La vitale solidarietà dei donatori di sangue rappresenta una testimonianza positiva della capacità della nostra società di allontanare da sé un atteggiamento di globalizzazione dell’indifferenza».

Grazie ai donatori nel 2015 in Italia sono stati prodotti 2.572.567 unità di globuli rossi, 276.410 unità di piastrine e 3.030.725 unità di plasma. Sono stati trasfusi 8.510 emocomponenti al giorno e curati 635.690 pazienti (1.741 pazienti al giorno).

«Questa fidelizzazione - dice Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Centro nazionale sangue - è fondamentale per via del legame molto stretto che esiste tra donazione volontaria, consapevole e non remunerata e qualità del sangue in termini di sicurezza. Grazie ai donatori l’Italia è un Paese autosufficiente già da diversi anni e normalmente esiste una situazione di bilancio positivo tra numero di unità di sangue ed emocomponenti donate e fabbisogno a livello locale».

Il sistema insomma funziona, anche se qualche inconveniente può capitare.

«Nel periodo estivo - ammette Liumbruno - alcune Regioni possono trovarsi in situazioni di carenza ma il Sistema è strutturato in modo tale da garantire la copertura dei bisogni trasfusionali attraverso lo scambio interregionale. È importante sottolineare che il sangue è una risorsa biologica limitata e, nel rispetto dei donatori, è necessaria una forte attenzione non solo agli aspetti produttivi ma anche all’appropriatezza dei consumi e alla gestione delle scorte».

Resta la necessità di reclutare nuove leve e permettere il ricambio generazionale. A dare il buon esempio ci pensano i giovani donatori come Agar Agalliu e Elia Carlos Vazquez di origine albanese, e argentina rispettivamente: «Credo sia fondamentale che sia i nuovi italiani che gli immigrati donino sangue - dice Carlos Vasquez - perché hanno un’età media di circa 30 anni e sono in crescita demografica. Sappiamo che non esiste alcuna distinzione di cittadinanza ma, al contrario, il sangue è uguale per tutti. I gruppi sanguigni però sono distribuiti in maniera differente nelle diverse etnie e popolazioni, dunque è importante sensibilizzare verso la donazione tutti i membri appartenenti ad una comunità. Il gesto della donazione è un primo strumento che aiuta a riflettere, aumentare la propria consapevolezza, costruire amicizie e collaborazioni. Tutto questo facilita l’integrazione sociale».

Tratto da: Healthdesk, 17 gennaio 2016