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Non solo carboidrati !

L’Iperglicemia postprandiale nel diabete tipo 1 non dipende solo dai carboidrati! Forse è tempo di rivedere l’educazione sul “counting” per stabilire le dosi di insulina.

L’aumento della glicemia dopo i pasti è un problema di tutti i giorni per le persone con diabete mellito. Ancora di più per i pazienti con diabete tipo 1 che non producono insulina e devono, pertanto, iniettarsela sottocute prima di mangiare per cercare di mantenere sotto controllo la glicemia. La ricerca diabetologica è da anni impegnata ad identificare i componenti della dieta che potrebbero aiutare a limitare le escursioni postprandiali della glicemia che contribuiscono allo sviluppo delle complicanze croniche del diabete e che affliggono la qualità di vita dei pazienti.

Ad oggi, il contenuto in carboidrati del pasto è considerato il principale determinante della risposta glicemica postprandiale e le Linee Guida delle più importanti società scientifiche raccomandano che le dosi pre-prandiali di insulina siano determinate in base alla quantità dei carboidrati del pasto.

A questo scopo, l’educazione terapeutica dei pazienti con diabete include l’addestramento al “counting dei carboidrati” che è, per l’appunto, un metodo che consente ai pazienti di riconoscere e quantificare i carboidrati e, in base ad essi, stabilire la dose di insulina per il pasto.

Tuttavia, nonostante gli sforzi dei pazienti e degli educatori, applicare il “counting dei carboidrati” non è sempre sufficiente ad ottimizzare la risposta glicemica postprandiale. Ciò potrebbe essere dovuto a vari fattori. Prima fra tutti, la qualità dei carboidrati così come determinata dal loro contenuto in fibre e dal loro indice glicemico. Vi sono, infatti, alcune evidenze che dimostrano come metodi, che consentono di tenere in considerazione la qualità dei carboidrati oltre che la loro quantità nella determinazione delle dosi pre-prandiali di insulina, migliorino il compenso glicemico postprandiale rispetto al calcolo dei carboidrati tradizionale in condizioni di vita reale. Un altro aspetto fondamentale è che le persone con diabete, nella vita di tutti i giorni, non mangiano pasti che contengono solo carboidrati ma anche altri macronutrienti che potrebbero influenzare la risposta glicemica. A tal proposito, vi sono indicazioni che la quantità dei grassi del pasto determina un aumento maggiore e più prolungato nel tempo della glicemia postprandiale e, concordemente a questi dati, sono stati sviluppati ulteriori metodi alternativi al conteggio dei carboidrati per la determinazione delle dosi pre-prandiali di insulina che tengono conto anche della quantità dei grassi. Gli studi, che sinora hanno valutato l’effetto della quantità dei grassi sulla risposta glicemica postprandiale, hanno verificato essenzialmente gli effetti di pasti ricchi di grassi saturi e non hanno preso in considerazione il ruolo dell’interazione della qualità dei grassi con la qualità dei carboidrati. In realtà, vi sono indicazioni che anche la qualità dei grassi potrebbe influenzare la risposta glicemica postprandiale. Ciò è suggerito da studi in soggetti sani o con il diabete tipo 2 in cui è stato dimostrato che gli acidi grassi saturi, al contrario dei monoinsaturi, tendono a peggiorare l’insulino-sensibilità e a rallentare la velocità di svuotamento gastrico. Vi sono indicazioni, inoltre, che i grassi monoinsaturi sono in grado di modulare la fisiologia degli ormoni gastrointestinali e, in particolare, di stimolare la secrezione di GLP-1. Prendendo spunto da queste considerazioni, alcuni ricercatori dell’Università Federico II di Napoli hanno condotto un trial randomizzato e controllato, pubblicato recentemente nella rivista Diabetes Care, il cui scopo era verificare l’ipotesi secondo cui sia la qualità dei grassi che l’indice glicemico del pasto, nonché l’interazione fra di essi, possono influenzare la risposta glicemica postprandiale in pazienti con diabete tipo 1.

Per verificare questa ipotesi, 13 pazienti con diabete tipo 1 in trattamento con microinfusore di insulina, in base ad un disegno cross-over randomizzato (Figura 1), sono stati assegnati a consumare una serie di pasti con la stessa quantità di carboidrati ma costituiti a) da pasta e lenticchie, pane integrale e mela (a basso indice glicemico) oppure b) riso, pane bianco e banana (ad alto indice glicemico). Entrambi i tipi di pasto erano o 1) poveri di grassi (‘low fat’), oppure ’conditi’ con tipologie di grassi diversi; 2) pasto ricco di grassi saturi (burro); 3) pasto ricco di grassi monoinsaturi (olio extravergine d’oliva, EVO).

I partecipanti hanno consumato i pasti ad ora di pranzo al proprio domicilio e, durante l’intero periodo sperimentale, hanno effettuato il monitoraggio in continuo della glicemia. Le dosi pre-prandiali di insulina sono state determinate in base al rapporto individuale insulina/carico glicemico, per cui i partecipanti hanno effettuato in media 8.3±2.0 U.I. di insulina per i pasti a basso indice glicemico e 12.6±3.5 U.I. per i pasti ad alto indice glicemico.

 

Come atteso, i pasti ad alto indice glicemico hanno determinato un aumento della glicemia maggiore e più precoce rispetto a quelli a basso indice glicemico. Tuttavia, nell’ambito dei pasti ad alto indice glicemico, l’aggiunta di olio d’oliva extravergine al pasto attenuava il picco glicemico post-prandiale osservato sia con il pasto condito con burro che con quello a basso contenuto di grassi (Figura 2).

I risultati di questo studio hanno importanti ricadute pratiche per i pazienti con diabete tipo1 in quanto dimostrano chiaramente che la quantità di carboidrati del pasto rappresenta solo una parte “della storia” e che, per poter limitare efficacemente le escursioni glicemiche postprandiali, sarà necessario creare degli algoritmi per la determinazione delle dosi pre-prandiali di insulina che tengano conto anche della qualità dei carboidrati e della qualità e quantità dei grassi. Non solo: va tenuto presente, infatti, che l’olio extra-vergine d’oliva è ricco in polifenoli, sostanze bioattive con proprietà anti-ossidanti, che sono in grado di limitare l’assorbimento dei carboidrati e, quindi, le escursioni glicemiche postprandiali. È possibile, pertanto, che i risultati di questo studio siano da ascrivere anche all’effetto dei polifenoli che entrerebbero, quindi, di diritto nel computo delle variabili alimentari da considerare per stabilire la dose pre-prandiale di insulina. Naturalmente, la possibilità di limitare le escursioni glicemiche dovute all’assunzione di pasti ad alto indice glicemico mediante l’aggiunta di olio extravergine d’oliva, rappresenta un ulteriore punto a favore dell’utilizzo di questo alimento i cui benefici sono già stati dimostrati per vari altri fattori di rischio cardiovascolare quali l’insulino-resistenza, la dislipidemia e la steatosi epatica. Non bisogna dimenticare, però, che l’olio extravergine di oliva è un grasso e, quindi, ricco in calorie. Pertanto, la quantità da utilizzare, sia nelle persone con diabete che nella popolazione generale, deve sempre tener conto dell’apporto calorico globale. In genere, per un individuo normopeso, questa quantità si aggira sui 4-5 cucchiai al giorno.

Lutgarda Bozzetto

Ricercatore a tempo determinato

Dipartimento di Medicina Clinica e Chirurgia

Università Federico II, Napoli

Tratto da: Cardiolink, 20 settembre 2016