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Le sindromi metaboliche correlate con le obesitā

 

Definizioni e caratteristiche diverse dell’accumulo di tessuto adiposo.
Innanzitutto, il titolo non è un refuso di stampa: parliamo al plurale perché molte sono state, negli anni, le definizioni di “sindrome metabolica” (SM) e diverse sono le caratteristiche dell’accumulo di tessuto adiposo nell’organismo umano.
Iniziamo con ordine. Quale utilità può venire al medico dalla definizione di SM? Il punto di maggior rilievo dovrebbe essere riconoscere un’associazione di elementi clinici che determina un alto rischio cardio-cerebro-vascolare (RCCV). Da ciò consegue che il controllo e il trattamento dei determinanti che permettono di porre diagnosi di SM consentirebbe di ridurre l’RCCV globale, migliorando la prognosi individuale.
Certo, voler porre dei limiti a determinanti clinici che, di per sé, non hanno un valore-soglia (come la glicemia, la circonferenza addominale, la colesterolemia-HDL, la trigliceridemia, la pressione arteriosa ecc), ma sono piuttosto delle variabili continue, può causare contrasti interpretativi o limitare l’attenzione per fasce di popolazione.
Ecco perché la nuova classificazione proposta dall’International Diabetes Federation (IDF), che pone in primo piano la misura della circonferenza addominale come indice dell’adiposità viscerale, con soglie differenziate per popolazioni ed etnie, permette di focalizzare l’attenzione del clinico sull’importanza dell’obesità del distretto viscerale. Il ripensamento dei limiti dei criteri diagnostici per SM (rispetto alle proposte del NCEP-ATP III del 2001 e del 2005) non è da vedere in modo negativo, ma come desiderio di estendere a una quota di popolazione più ampia l’opportunità di richiamare l’attenzione del medico curante e di accedere ai benefici di un trattamento efficace (non farmacologico, in primis, o farmacologico, se indicato).
A proposito di validità della misurazione della circonferenza della vita (e del rapporto tra questa e la circonferenza dei fianchi), ricordiamo lo studio Interheart: proprio la misurazione del rapporto vita/fianchi (che riflette il pericoloso deposito viscerale di adipe) permette di predire, ancora meglio del calcolo del BMI, il rischio di infarto miocardico. L’obiettivo, infatti, rimane quello di una miglior possibilità di prevenire il RCCV.
D’altra parte, l’impressionante progressione della prevalenza che l’obesità sta mostrando non solo nel mondo occidentale, ma soprattutto nelle economie in via di sviluppo, ha fatto parlare di vera e propria epidemia. Per citare alcuni numeri, ricordiamo che l’International Obesity Task Force stima che vi siano almeno un miliardo e 100 milioni di persone sovrappeso al mondo, di cui almeno 312 milioni francamente obesi. Considerando poi i nuovi criteri di valutazione della circonferenza addominale proposti per le popolazioni asiatiche (90 cm per gli uomini e 80 cm per le donne) e per gli europei (94 cm per gli uomini e 80 cm per le donne), ben inferiori ai limiti per la popolazione americana (rispettivamente 102 e 88 cm), si può immaginare come la prevalenza dei soggetti sovrappeso possa ulteriormente aumentare.
Purtroppo, l’aumento dell’obesità e del sovrappeso incide sull’aspettativa di vita. Per esempio, si calcola che un olandese di 40 anni obeso abbia un’aspettativa di vita ridotta di ben sette anni rispetto a un coetaneo normopeso. In Gran Bretagna si è calcolato che un BMI ai limiti superiori di norma potrebbe ridurre l’aspettativa di vita di due anni, che potrebbero diventare cinque nell’anno 2050. Negli Stati Uniti si ritiene che un moderato calo ponderale (meno del 10 per cento del peso corporeo di partenza in soggetti obesi-sovrappeso) potrebbe ridurre del 30-40 per cento la mortalità correlata al diabete. Inoltre, i pazienti con diabete di tipo 2 di nuova diagnosi che riescono a perdere circa 10 kg nel loro primo anno di cura, possono guadagnare quattro anni di aspettativa di vita.
Molto interessanti le osservazioni che giungono dalla Società americana del Cancro. Valutando una vasta coorte di soggetti sani e non fumatori, un ampio studio di prevenzione ha ribadito che l’indice di massa corporea correla positivamente con la mortalità. In pratica, all’aumentare del BMI oltre il valore soglia di 25, cresce progressivamente anche il rischio di mortalità per tutte le cause.
Non è però solo una questione di vita o di morte. Sono stati considerati anche gli anni di vita “disabilitati”, cioè socialmente persi a causa dell’obesità o di patologie a essa associate: allora si nota come (nei paesi europei) gli uomini perdano anni di vita socialmente attiva soprattutto a causa di malattie ischemiche cardiache o cerebrali, diabete, ipertensione, osteoartrosi o cancro del colon.
Le donne europee aggiungono, a tali patologie, i tumori mammari e dell’utero, ma è drammatico osservare come la popolazione dell’Europa Centrale e dell’Est sia ben più esposta a tali disabilità rispetto ai vicini europei occidentali.
Dall’aumentata prevalenza dell’obesità e del sovrappeso derivano poi le “epidemie” di diabete e di sindrome metabolica. Si è parlato a lungo dell’esplosione dei casi di diabete, ma non si è tenuto in altrettanta considerazione il previsto aumento dei casi di intolleranza ai glucidi (IGT) che si osserverà – a meno di drastiche prese di posizioni governative o incisive scelte di politica sanitaria – nei prossimi 25 anni. Alcuni (grandi) numeri per riflettere: in Cina la prevalenza dell’IGT passerà dal 2-5 per cento del 2003 al 5-8 per cento del 2025; in Russia e nei paesi limitrofi dell’Est Europeo, si raggiungerà (per quella data) la percentuale del 17-20 per cento (dati dell’Atlante del Diabete IDF). A tutt’oggi, i casi di diabete attribuibili all’aumento di peso sono oltre l’80 per cento nel Nord America e a Cuba, oltre il 70 per cento in Europa, oltre il 50 per cento in Medio Oriente, Cina e Vietnam e oltre il 40 per cento in Australia, Giappone e Africa.
E in Italia? L’Osservatorio epidemiologico cardiovascolare italiano (OECI) fornisce dati molto interessanti proprio sulla prevalenza della SM, suddivisi per macro-regioni. Per esempio, negli uomini di 65-74 anni si passa da una prevalenza del 23 per cento nel Nord-Ovest, al 27 per cento nel Nord-Est, al 29 per cento al Centro e al 33 per cento nel Sud e nelle isole. Le signore di pari età mostrano percentuali ancora maggiori: dal 29 per cento del Nord-Ovest, al 34 per cento del Nord-Est, passando al 41 per cento del Centro, sino a raggiungere il 44 per cento nel Sud e nelle isole.
All’inizio abbiamo parlato di obesità “al plurale” perché, dal punto di vista fisiopatologico, sono ben diverse le caratteristiche del tessuto adiposo sottocutaneo rispetto a quello che si accumula nell’addome. Ma che cosa differenzia il grasso sottocutaneo da quello viscerale?
La specificità che maggiormente interessa, dal punto di vista metabolico, è la capacità di produrre (da parte degli adipociti viscerali) sostanze chimiche (citochine o adipochine) o ormonali. Il tessuto grasso è considerato un vero e proprio organo adiposo, con grande capacità sintetica. Leptina, adiponectina, resistina, interleuchina 6, fattore di necrosi tumorale, angiotensina, adipsina, fattori di crescita e trasformazione, ormoni steroidei non passa settimana che, nelle riviste scientifiche, non si scopra qualche nuova sostanza prodotta degli adipociti, con effetti autocrini, paracrini o endocrini propriamente detti.
Prendiamo in considerazione alcune di queste adipochine:
  • la resistina, una proteina di 12,5 kDa contenente 108 aminoacidi, prodotta dall’adipocita come pre-peptide, con clivaggio della componente attiva idrofobica prima della sua secrezione. La resistita è elevata nel diabete tipo 2 e si sospetta possa essere il legame tra l’obesità e l’insulino-resistenza. I tiazolidinedioni (farmaci utilizzati per ridurre l’insulino-resistenza nel diabete tipo 2) riducono infatti la produzione di resistina adipocitaria: il loro effetto antidiabetico si potrebbe spiegare, almeno in parte, proprio con questo meccanismo;
  • la leptina, prodotto del gene ob, è un proteormone a singola catena con massa molecolare di 16kDa. Secreta dagli adipociti differenziati (ma anche da altri tessuti come le cellule del fundus gastrico, dai muscoli scheletrici, dal fegato, dalla placenta), agisce nel sistema nervoso centrale, in particolare nell’ipotalamo, sopprimendo gli stimoli per l’assunzione di cibo e stimolando il dispendio energetico. L’azione centrale avviene tramite il neuropeptide Y (determinando calo ponderale, aumento del tono simpatico, normalizzazione della glicemia e dell’insulinemia), ma anche tramite un’azione mediata da glucocorticoidi, TNF-alfa e IL-1, oltre che, direttamente, dall’insulina. A livello periferico, la leptina agisce su pancreas (secrezione insulinica), fegato (gluconeogenesi e glicogenolisi) e muscolo (uptake e metabolismo del glucosio). I recettori della leptina appartengono alla famiglia dei recettori delle citochine di classe I;
  • l’adiponectina, una proteina di 247 aminoacidi con un dominio collagene N-terminale e un dominio globulare che ha sensibili omologie con la subunità del fattore complemento C1q; nell’uomo le concentrazioni di adiponectina correlano fortemente con la sensibilità all’insulina. Le mappature genomiche hanno permesso di riconoscere un locus di suscettibilità per il diabete mellito tipo 2 e per la sindrome metabolica nel cromosoma 3q27 (sito candidato anche per la coronaropatia), una regione dove è situato il gene AMP1 che codifica la leptina. I livelli plasmatici di adiponectina correlano negativamente con il BMI e sono significativamente ridotti in pazienti con coronaropatia o nei diabetici. Alcune mutazioni dell’adiponectina sono associate proprio alla sindrome metabolica e alla malattia coronarica. Le azioni dell’adiponectina sono mediate da almeno due recettori specifici (AdipoR1 e AdipoR2), identificati rispettivamente nel cromosoma 1p36 e nel cromosoma 12p13. Il primo è più espresso nel muscolo, il secondo nel fegato. AdipoR1 agisce mediante la via dell’AMP-Kinasi; AdipoR2 attraverso l’attivazione dei PPAR-alfa. Il bilancio finale è quello di un maggior uptake di glucosio e una maggiore ossidazione degli acidi grassi da parte degli organi interessati. Di particolare significato è l’osservazione che il cambiamento dello stile di vita in adolescenti obesi ottiene un aumento della concentrazione di adiponectina, grazie alla riduzione della massa adipocitaria;
  • la SRBP4: la proteina 4 legante il retinolo sierico è di scoperta recente, ma ha già stimolato l’interesse dei ricercatori poiché si è riconosciuto il suo contributo all’insulinoresistenza nell’obesità e nel diabete tipo 2; i suoi livelli aumentano in condizioni di insulinoresistenza, e si riducono dopo terapia con rosiglitazone (uno dei tiazolidinedioni in commercio anche in Italia, insieme al pioglitazone), con il risultato finale di una maggiore insulinosensibilità.
Tutte queste interessanti osservazioni non devono, però, farci dimenticare che l’adiposità viscerale causa anche un eccessivo afflusso di acidi grassi liberi a livello portale, con dislipidemia secondaria, dal potente significato ateromatoso Ma l’argomento lipidico sarà oggetto di un prossimo articolo.
Antonio Carlo Bossi - Direttore, Unità operativa Malattie metaboliche e Diabetologia Azienda ospedaliera “Ospedale Treviglio-Caravaggio
Tratto da: Cardiometabolica, 04 ottobre 2010